Il Mulino dedica numero a italiani all’estero

A cura di Enrico Pugliese

GEN 21, 2019 -

Roma, 21 gen. (askanews) – L’ultimo numero della rivista ‘Il Mulino’ dedica il suo ultimo numero agli italiani all’estero, a cura di Enrico Pugliese. Dal fascicolo, ‘Viaggio Tra gli italiani all’estero. Racconto di un paese altrove’, anticipamo il pezzo di presentazione della sezione ‘i dati’ a firma di di Maddalena Tirabassi, intitolato ‘ Migranti da sempre’.

L’intera storia della penisola italiana è stata plasmata dalle mobilità: le migrazioni sono cominciate molto prima che si potesse parlare di Stato e si protraggono fino ai giorni nostri, con oltre 29 milioni di protagonisti diretti, fenomeni di pendolarismo e di ritorno e un numero di discendenti che si aggira sui 60 milioni di persone. Più o meno direttamente tutta la popolazione italiana ha avuto un’esperienza migratoria.

Ma quando si pensa alle migrazioni italiane, nell’immaginario restano ancora molti luoghi comuni da abbattere, in gran parte risultato dell’attenzione a lungo prestata alla cosiddetta «grande emigrazione» che ha distolto l’attenzione dalle migrazioni preunitarie, da quelle interne e del secondo dopoguerra, dalle partenze dirette in Europa e verso il Mediterraneo, dalle immigrazioni postcoloniali, per citarne solo alcune. Nel 1973, anno in cui il numero degli immigrati superò quello degli emigrati, si pensò che l’emigrazione italiana fosse finita: in realtà migliaia di persone continuavano a spostarsi, sia all’interno del Paese secondo l’asse Sud-Nord, sia verso l’estero, e alla fine del secondo millennio si è verificata una ripresa delle partenze da ogni regione d’Italia, con cifre che oggi toccano le centinaia di migliaia.

«L’Italia nasce globale», così lo scrittore e diplomatico Ludovico Incisa di Camerana inizia a parlare delle migrazioni italiane. Ecco perché da alcuni anni si parla di una diaspora italiana: le migrazioni dalla Penisola si sono, da sempre, dirette in ogni angolo del mondo.

A partire dall’epoca preunitaria, si hanno le «colonie» genovesi e veneziane, eredi di antiche comunità che risalgono talvolta all’età delle Crociate, distribuite nelle principali città greche e dell’Asia Minore, e in altre parti dell’impero d’Oriente, formate da mercanti, artigiani e banchieri. Le più note sono quelle nell’Egeo, a Salonicco, Chio e Creta, e in Asia Minore, a Costantinopoli e Smirne. Gli «italo-levantini» si potevano rintracciare anche in Siria, Palestina ed Egitto, fino all’estremo del Marocco. A partire dal Seicento, mercanti e banchieri si diressero in Europa, dove architetti e artigiani italiani parteciparono non solo alla costruzione delle grandi città europee, ma anche alla cultura. Si avevano insediamenti, anch’essi mercantili, che a Londra e a Parigi dettero rispettivamente il nome a Lombard Street e a Rue de Lombards. Nella Vienna del Seicento era all’opera la più folta comunità di artisti italiani reperibile nell’Europa del tempo. Oltre agli stuccatori, le attività edilizie attiravano architetti, impresari edili e altri artigiani. Assieme alla lingua italiana imporranno lo stile barocco, il teatro moderno, la musica. Anche in Germania, intere dinastie di decoratori si avvicendarono nel corso del Settecento, contribuendo alla realizzazione di saloni e cappelle a Stoccarda e a Würzburg. Nella Russia degli zar architetti ticinesi e lombardi tracciarono le muraglie del Cremlino.

All’inizio del XIX secolo si emigrava dalle Alpi, avvalendosi anche qui delle competenze nei vari mestieri dell’edilizia, dalla Valsesia e dal Biellese nelle Alpi occidentali, fino alla Carnia in quelle orientali. Nei successivi decenni dell’Ottocento si aggiunsero altri emigranti, espulsi dal settore della tessitura domestica e per la conversione all’edilizia di altri gruppi di artigiani e di venditori ambulanti. Inoltre, si avevano «girovaghi, commedianti, suonatori di organo e di altri strumenti, saltimbanchi, prestigiatori, domatori di orsi, di scimmie e cani sapienti, indovini e ciarlatani d’ogni specie», secondo la descrizione fornita da un console del regno. A questo elenco pittoresco andavano aggiunte schiere di bambini dediti alla mendicità con l’aiuto di qualche strumento musicale, più tardi definiti come «piccoli schiavi dell’arpa», segnalati nelle principali città come Parigi, Londra e New York.

Nella prima metà dell’Ottocento gli esuli politici, i giacobini napoletani del 1799 e i fuorusciti dopo la restaurazione del 1815 e dei moti del 1821, si unirono alla schiera dei migranti. Le rivoluzioni e le guerre del 1848 provocarono il numero più ingente di esuli e di profughi. I fuggitivi si diressero a Firenze e a Torino, quindi in Svizzera, in Francia, in Spagna, a Malta, in altre località del Mediterraneo, nelle Americhe.

La grande emigrazione vide protagonista una popolazione giovane, in maggioranza analfabeta e prevalentemente maschile. In tutte le regioni interessate dall’emigrazione nelle prime fasi si ebbe un notevole aumento nel lavoro delle donne che restavano a casa in attesa del ritorno di padri e mariti, anche se le loro attività erano invisibili nelle statistiche ufficiali. Quando attraversava l’Oceano, la maggior parte delle donne partiva coi familiari e veniva definita, a seconda dei casi, housewife, casalinga, ama de casa, esposa, mentre la casella dell’occupazione sui fogli di sbarco rimaneva quasi sempre vuota. Il lavoro delle donne italiane spesso restò invisibile anche nei nuovi Paesi di insediamento, che lavorassero nelle fazendas brasiliane o nei tenement di New York in cui le donne italiane erano occupate prevalentemente a domicilio.

La grande emigrazione vide protagonista una popolazione giovane, in maggioranza maschile e analfabeta

Le zone alpine e appenniniche assistettero a una più consistente percentuale di emigrazione di donne sole composta da operaie per lo più tessili, maestre, sarte, domestiche e balie. Ma la migrazione delle donne è forse il campo in cui si riscontrano maggiori differenze rispetto al passato. Oggi le donne hanno alti livelli di istruzione, varcano i confini quasi sempre da sole e in numeri che si avvicinano sempre più a quelli degli uomini.

Le cause della grande emigrazione, come è noto, furono prevalentemente economiche. Alle diverse crisi agrarie che colpirono l’Italia postunitaria si sommarono tradizioni di mobilità preunitarie – quali la transumanza nelle zone alpine e il lavoro a giornata al Sud -, il perdurare del latifondo e le durissime condizioni di vita, in particolare nelle regioni meridionali. Ma anche allora le innovazioni tecnologiche influenzarono i processi migratori. Alla fine dell’Ottocento la rivoluzione dei trasporti, con il passaggio alle grandi navi a vapore, costituì uno dei fattori scatenanti la grande migrazione transoceanica: dai 44 giorni di viaggio dei velieri si passò ai 14 delle navi, con la conseguente riduzione nel costo.

C’era il viaggio autofinanziato, quello pagato all’estero da parenti già emigrati, ma anche da banchieri e da «padroni» che avrebbero poi costretto gli emigrati a una situazione di subordinazione lavorativa fino all’estinzione del debito. Sistema, quest’ultimo, adottato da oltre il 30% di chi partiva nella seconda metà dell’Ottocento. E, possiamo aggiungere, fortemente presente anche nelle migrazioni della seconda globalizzazione.

Anche le condizioni di viaggio dei nostri emigranti ci riportano a immagini contemporanee, dal momento che su quelle che venivano definite «carrette del mare» venivano sfruttati tutti gli spazi disponibili. Nel 1899 su un piroscafo diretto in Brasile si ebbero 27 morti per asfissia, su un altro 34 vittime per mancanza di viveri, per non parlare delle malattie che si sviluppavano a causa delle precarie condizioni igieniche. I resoconti dell’epoca riportano migliaia di migranti affetti da malaria, morbillo, infezioni polmonari, tracoma, a cui si aggiungevano alti tassi di mortalità infantile. Solo dopo il 1907 per sbarcare a Ellis Island, il più noto porto dell’emigrazione europea negli Stati Uniti, divenne necessario che i transatlantici rispondessero a precise norme di sicurezza e igiene per le terze classi. Nei primi due decenni del secolo i respinti al momento dello sbarco a causa di malattie furono comunque decine di migliaia.

Si partiva da ogni zona d’Italia, certo non solo dal Meridione

I dati statistici, rilevati a partire dal 1876, sfatano immediatamente il luogo comune secondo cui l’emigrazione italiana è un fenomeno circoscritto al Meridione. Non solo tutte le regioni italiane contribuirono alle partenze, ma tra il 1876 e il 1900 si verificò una priorità dell’esodo da quelle settentrionali – con tre regioni che fornirono da sole il 47% del contingente migratorio: il Veneto (17,9%), il Friuli-Venezia Giulia (16,1%) e il Piemonte (12,5%). La situazione si capovolse nei due decenni successivi, quando il primato migratorio passò alle regioni meridionali, con la Sicilia che dette il maggior contributo, pari al 12,8% con 1.126.513 emigranti, seguita dalla Campania con 955.188 (10,9%).

Nella storia dell’emigrazione italiana le destinazioni europee sono state a lungo prevalenti, e solo durante il periodo della grande emigrazione le partenze transoceaniche da alcune regioni, soprattutto meridionali, hanno superato quelle dirette verso l’Europa o altri Paesi del Mediterraneo. Tuttavia, questa minore visibilità non risulta motivata da una minore importanza quantitativa rispetto all’esodo transoceanico. Sul piano quantitativo l’emigrazione in Europa nel periodo compreso fra il 1876 e il 1975 ha raccolto il 52,1% dell’esodo totale, con circa 13 milioni e mezzo di partenze contro gli 11 milioni e mezzo dell’emigrazione diretta verso le Americhe. Fra le destinazioni Oltralpe dell’esodo italiano un ruolo preponderante è rivestito dalla Francia, che non solo ha assorbito nel tempo circa 4 milioni di immigrati, ma che è stata costantemente la meta privilegiata dell’emigrazione italiana. Non mancarono qui, come altrove, episodi di xenofobia che si verificarono in particolare negli anni Ottanta dell’Ottocento, quando alla crescita esponenziale della presenza degli italiani si accompagnarono frequenti crisi economiche, come testimonia il famoso eccidio di Aigues Mortes del 1893.

Fra il 1880 e il 1915 approdano negli Stati Uniti quasi 4 milioni di italiani – su un totale che scelse mete transoceaniche di 9 milioni circa. Occorre precisare che queste cifre non tengono conto dei rientri, che rappresentarono un fenomeno massiccio: circa la metà degli emigrati rimpatriò e, nel periodo 1900-1914, il numero dei rientri si aggirò tra il 50 e il 60%. La grande maggioranza proveniva dalle province meridionali. Per tutti l’impatto con il nuovo mondo si rivelò difficile fin dai primi istanti, ammassati a Castle Garden e poi, dal 1892, negli edifici di Ellis Island, o di qualche altro porto come Boston, Baltimora o New Orleans. Dopo settimane di viaggio, affrontavano l’esame, a carattere medico e amministrativo, dal cui esito dipendeva la possibilità di mettere piede sul suolo americano. La severità dei controlli fece ribattezzare l’isola della baia di New York come l’«isola delle lacrime».

Negli anni Venti i principali Paesi che avevano accolto i grandi flussi migratori italiani imposero restrizioni

In Brasile giunsero, dal 1861 al 1890, oltre un milione e mezzo di italiani. Approdarono dopo la promulgazione della legge del 1888 che aboliva la schiavitù. Si diressero prevalentemente negli attuali Stati di San Paolo e di Santa Catarina e Rio Grande do Sul, arrivando attraverso l’immigrazione sovvenzionata con biglietti prepagati.

Nell’area paulista gli italiani vennero impiegati prevalentemente nelle piantagioni di caffè, dove furono loro imposti rapporti di lavoro che li gettavano in una posizione di semiservitù. Era il piccolo mondo chiuso delle fazendas di caffè pauliste, dove «le possibilità di guadagno erano legate al numero di persone impiegate e la famiglia veniva sfruttata fino ai limiti del lecito». Anche i bambini cominciavano a lavorare a 6-7 anni. Negli Stati meridionali i coloni furono più liberi, ma dovettero affrontare i disagi del disboscamento della foresta, conducendo un’esistenza nel più completo isolamento e regredendo a uno stato di vita semiselvaggio.

La presenza di italiani sul territorio dell’Argentina risale al periodo coloniale. A partire da metà Ottocento fu la seconda destinazione delle migrazioni transoceaniche italiane; il Paese, fino alla Prima guerra mondiale, accolse circa due milioni di italiani.

Un’analisi comparata della legislazione sull’immigrazione nei vari Paesi è particolarmente utile per il dibattito contemporaneo. Essa mostra come nel mondo moderno sia invalso il tentativo di selezionare l’immigrazione.

Durante gli anni Venti del Novecento si ebbero restrizioni all’emigrazione nei principali Paesi che avevano accolto i grandi flussi migratori italiani, e non si trattava della prima volta: già nel corso dell’Ottocento, infatti, erano stati effettuati tentativi di selezionare l’immigrazione in base alla nazionalità, ma questi avevano avuto scarsi risultati con gli immigrati provenienti dall’Europa. La Grande guerra fece però da catalizzatore delle paure nei confronti degli stranieri. Nel corso del conflitto, vari Paesi emanarono norme che preannunciavano l’indirizzo nazionalista a cui si sarebbero ispirate le politiche migratorie degli anni successivi.

Sin dall’Ottocento, negli Stati Uniti, gruppi come l’American Protective Association, nata nel 1887, e l’American Restriction League, sorta nel 1894, avevano fatto pressioni perché l’immigrazione fosse limitata e accuratamente selezionata, tracciando una linea netta tra la vecchia immigrazione e la nuova.

In Canada, per tutto l’Ottocento la politica migratoria era stata dettata dall’esigenza del popolamento delle vaste praterie e venne perseguita attraverso uffici sparsi in Europa per reclutare contadini, in particolare nelle regioni settentrionali. Le uniche restrizioni significative avevano riguardato le immigrazioni asiatiche, che avevano portato, nel 1885, alla ratificazione del Chinese Immigration Act. Successivamente, tra i non graditi vennero inclusi italiani, neri ed ebrei. Nel 1919 venne varata una sorta di Literacy test in inglese e francese. Ma fu nel 1922 che si manifestò con maggior vigore la politica discriminatoria attraverso l’Empire Settlement Act, teso a favorire l’immigrazione dai Paesi del Commonwealth, politica che sarà rafforzata ulteriormente nel 1931 da un emendamento che statuiva l’accoglienza di soli statunitensi e britannici.

In Brasile, negli anni Trenta, venne istituito un sistema di quote analogo a quello in vigore negli Stati Uniti dal 1921. Si stabilì, inoltre, che nelle imprese le assunzioni fossero riservate per due terzi ai brasiliani. In Argentina, tra il 1887 e il 1890, entrò in vigore il sistema dei viaggi prepagati, miranti a promuovere l’immigrazione dal Nord Europa per controbilanciare il peso di quella italiana.

Tra le due guerre, con l’avvento del fascismo, si ebbe la ripresa delle migrazioni politiche, con circa 60 mila emigrati che si diressero prevalentemente in Francia, nelle Americhe e in Russia, a seconda dell’orientamento politico.

Nel 1941, tre anni dopo il varo delle leggi razziali, quasi 6 mila persone, pari al 12% dei 47 mila ebrei italiani, avevano lasciato il Paese. Ma il contingente più folto, di circa 4.500 persone, fuggì dopo l’8 settembre 1943, riparando in Svizzera, dove però non tutti vennero accolti.

La conclusione della Seconda guerra mondiale si accompagnò a una nuova ondata di profughi italiani, che giunsero dall’Istria e dalla Dalmazia. Sulla consistenza dell’esodo le stime non sono concordi e variano da un minimo di 200 mila a un massimo di 350 mila persone, secondo le valutazioni delle associazioni degli esuli. Negli anni Cinquanta interessò anche l’Italia l’esodo dovuto ai processi di decolonizzazione, con l’arrivo di migliaia di uomini e donne che nel corso dell’Ottocento e della prima metà del Novecento si erano insediati nei Paesi dell’Africa settentrionale e soprattutto in Tunisia.

Nel secondo dopoguerra si assisté all’apertura di nuove rotte migratorie e all’introduzione di accordi bilaterali fra i Paesi di destinazione e il governo italiano per regolare e incanalare i flussi di popolazione secondo le esigenze dei mercati del lavoro locali, nella ricerca di maggiori tutele e garanzie per gli emigranti e per la gestione dei loro risparmi. Infine, le aree di partenza si spostarono progressivamente verso il Mezzogiorno, connotando l’emigrazione italiana come un fenomeno prevalentemente meridionale.

Nel corso degli anni Cinquanta, la ripresa vigorosa dell’esodo all’estero non frenò gli spostamenti interni, che subirono un incremento analogo, riproponendo i percorsi attivati nei decenni precedenti: dalle campagne verso le città, dalle regioni del Nord Est verso le aree più industrializzate del Nord Ovest e dal Meridione verso il Settentrione. Quando, nel 1961, venne finalmente abrogata la legge contro le migrazioni interne, i nuovi residenti divennero oltre 200 mila.

Per giungere ai giorni nostri, fattori economici e culturali si intrecciano tra le cause che hanno visto riprendere le migrazioni a cavallo degli anni Duemila. Quello che agli inizi era letto con curiosità come il segno della sprovincializzazione della società italiana – ci si trovava di fronte alla prima generazione in grado di parlare inglese e di muoversi con disinvoltura nel mondo – o, quasi con orgoglio, come il riconoscimento del genio italico all’estero, esemplificato nella sua stessa denominazione «la fuga dei cervelli», negli ultimi anni ha cominciato a suscitare allarme. Che non si trattasse più di un fenomeno tutto sommato di élite hanno iniziato a denunciarlo i meridionalisti parlando delle «partenze» verso il Nord Italia e verso l’Europa della loro «meglio gioventù».

Una cultura della mobilità si è sviluppata attraverso classi e generazioni

La novità delle mobilità odierne è data probabilmente dall’intreccio dei numerosi fattori che ne sono all’origine. Un aspetto di solito trascurato è dato dal fatto che negli ultimi decenni abbiamo avuto in Italia un grande cambiamento nell’atteggiamento delle persone in relazione a ciò che chiameremmo le relazioni personali con la mobilità: a grandi linee, fino agli anni Settanta del secolo scorso gli italiani che attraversavano i confini del Paese erano principalmente migranti (sempre più qualificati o professionisti) o cosmopoliti benestanti che potevano permettersi di viaggiare e mandare i propri figli a studiare all’estero. Poi le nuove tecnologie, l’Unione europea e Schengen hanno creato anche in Italia il turismo di massa, permettendo così agli italiani di familiarizzare con l’idea di varcare i confini con facilità. Una cultura della mobilità si è sviluppata attraverso classi e generazioni, grazie anche ai diversi programmi di studio che hanno portato studenti della classe media all’estero. Anche le novità delle comunicazioni hanno contribuito a rendere la popolazione più mobile: Skype, WhatsApp e i social media hanno sostituito le lettere, e le telefonate long distance consentono di mantenere legami glocal ancor più che nel passato, grazie anche ai viaggi low cost che, in particolare nei Paesi europei, facilitano non solo frequenti visits home, ma consentono anche a chi è rimasto di andare a trovare figli e amici «emigrati».

Alla maggiore libertà di movimento vanno aggiunte però la crisi dell’università italiana con i tagli alla ricerca, le cattive condizioni del mercato del lavoro giovanile, in generale la mancanza di meritocrazia diffusa nel Paese e la scarsa corrispondenza tra titolo di studio e occupazione. I media si sono occupati della perdita di talenti verso l’estero e hanno portato l’attenzione sul fenomeno migratorio contemporaneo creando lo stereotipo della fuga dei cervelli, surclassando così tutti gli altri fattori di «espulsione» riguardanti sia i giovani – amore, voglia di vivere in Paesi garanti di maggiori libertà civili, mancanza di prospettive lavorative – sia altre tipologie di emigranti quali i pensionati.

Le nuove migrazioni o nuove mobilità – sulla terminologia è in corso un dibattito che solo il corso della storia potrà risolvere – sono quindi frutto dell’intrecciarsi di diversi fattori. Si può affermare che la crisi economica e politica del 2010 abbia catalizzato vecchie e nuove tendenze portando gli italiani a lasciare il Paese in numero sempre maggiore. Le migrazioni oggi hanno infatti cifre a cinque zeri: 157 mila persone nel 2016 di cui 115 mila italiani, secondo l’ultimo bilancio demografico dell’Istat, che hanno varcato le frontiere con un incremento di oltre il 250% rispetto al 2002. Le 100 mila unità erano state toccate per la prima volta all’inizio della grande emigrazione nel 1880! Gli iscritti all’Anagrafe degli italiani residenti all’estero (Aire) al 1o gennaio 2017 erano 4.973.942, oltre l’8% della popolazione italiana. Si tratta però di una emigrazione difficile da quantificare poiché il migrante di oggi attraversa le frontiere europee senza visti e permessi di soggiorno e spesso tralascia la cancellazione anagrafica dall’ultimo comune di residenza in Italia. Di conseguenza, la dimensione reale del fenomeno supera abbondantemente i dati ufficiali e, secondo alcune stime, può più che raddoppiare.

Nonostante le numerose differenze che si possono riscontrare tra le vecchie e le nuove migrazioni italiane, il perdurare della crisi economica, sociale e politica sembra però assottigliare sempre più quella che era stata considerata la caratteristica principale che differenziava le nuove mobilità dalle migrazioni del secolo scorso: la libertà di scelta.