Come un granello di sabbia: Giuseppe Gulotta, storia di un innocente

Venerdì 17 novembre alle 21 al Teatro degli Intrepidi Monelli – in via Sant’Avendrace a Cagliari


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Un clamoroso “errore” giudiziario dai risvolti oscuri ed inquietanti rivive sulla scena in “Come un granello di sabbia / Giuseppe Gulotta, storia di un innocente” – in cartellone venerdì 17 novembre alle 21 al Teatro degli Intrepidi Monelli – in via Sant’Avendrace 100 a Cagliari (con un duplice appuntamento rivolto agli studenti delle superiori – venerdì 17 novembre alle 16.30 e sabato 18 novembre in matinée alle 11.30) sotto le insegne del CeDAC (nell’ambito del Circuito Multidisciplinare dello Spettacolo in Sardegna).

Focus sulla questione fondamentale della giustizia con la pièce firmata Mana Chuma Teatro (premio Selezione In-Box Blu 2016), scritta e diretta da Salvatore Arena e Massimo Barilla e interpretata dallo stesso Salvatore Arena, che presta volto e voce al protagonista, vittima suo malgrado di un tentativo di depistare le indagini, accusato di un delitto mai commesso e costretto a confessare sotto tortura, quindi condannato e infine assolto con formula piena, dopo ventidue anni di carcere e trentasei anni di “calvario giudiziario”.

Come un granello di sabbia / Giuseppe Gulotta, storia di un innocente” ricostruisce la vicenda drammatica e amara di un un uomo, arrestato a diciotto anni, nel pieno della giovinezza, rinchiuso in prigione senza colpa e costretto a difendersi contro un castello accusatorio apparentemente saldo ma fondato su false prove e dichiarazioni estorte con la coercizione – fisica e psicologica – allo scopo di coprire i veri responsabili della strage di Alcamo Marina e i segreti intrecci fra potere e criminalità organizzata.

Una vita spezzata per un infelice concorso di circostanze, che ha trasformato Giuseppe Gulotta (e con lui altri giovani, anch’essi risultati estranei ai fatti) in capro espiatorio del duplice omicidio di due carabinieri in una caserma in provincia di Trapani – un caso ancora irrisolto, per cui le ipotesi più accreditate restano quella di un delitto di mafia o di un atto di terrorismo (con collegamenti alla strategia della tensione e all’Operazione Gladio), accanto a possibili legami con il traffico di armi.

Una storia vera con tutte le caratteristiche di un thriller – dall’assalto notturno alla casermetta “Alkamar” della stazione di Alcamo Marina, una vera azione di guerra: i corpi dei due militari, crivellati di colpi, vennero scoperti l’indomani mattina dalla polizia, impegnata in un servizio di scorta a Giorgio Almirante, segretario dell’MSI. Tra le diverse piste seguite dagli inquirenti, le indagini condotte dal capitano Giuseppe Russo – poi ucciso dalla mafia – privilegiarono quella, risultata totalmente infondata, della presunta colpevolezza di quattro alcamesi: dopo l’assoluzione in primo grado e la temporanea scarcerazione, Giuseppe Gulotta e Giovanni Mandalà (morto in carcere nel 1998) furono condannati all’ergastolo, mentre per Gaetano Santangelo (arrestato solo nel 1995) e Vincenzo Ferrantelli la pena fu a vent’anni di reclusione. Il mistero avvolge la fine di Giuseppe Vesco, un carrozziere di Partinico, che confessò la propria responsabilità nella strage accusando i quattro per poi ritrattare, trovato impiccato in carcere pochi mesi dopo, benché avesse una sola mano.

Una narrazione avvincente, in cui appaiono accanto a Giuseppe Gulotta alcuni personaggi chiave – un vicequestore illuminato e l’ufficiale dell’arma “regista occulto” delle torture, ma anche i genitori e la moglie del protagonista (conosciuta nei giorni dell’“esilio” in Toscana prima della condanna definitiva, e rimastagli accanto durante gli anni del carcere, con la quale si è sposato alla fine di tutto, dopo l’assoluzione nel 2012 ) – vittime collaterali di un’ingiusta condanna che ha trasformato Giuseppe Gulotta in un “assassino” davanti alla legge e agli occhi della società, senza che mai venisse meno in lui l’ansia di riscatto e il desiderio di veder riconosciuta la verità.

Una vicenda tormentata – quella di un innocente imprigionato in un meccanismo micidiale, parte di un enorme complotto teso a mascherare i legami inconfessabili tra rami deviati dei servizi segreti e criminalità organizzata, tra mafia e uomini delle istituzioni che, al di là del diretto coinvolgimento nella Strage di Alcamo Marina, rischierebbero comunque di venire alla luce nel corso delle indagini. Il coraggio e la tenacia di Giuseppe Gulotta – che ha affrontato a testa alta i vari processi, con la certezza della propria innocenza e la convinzione di poter ottenere infine giustizia – son stati infine premiati – anche se nessun “risarcimento” in denaro potrà restituirgli gli anni rubati né cancellare i ricordi più crudeli.

Un caso esemplare di “malagiustizia” in cui la “presunzione di colpevolezza” si sostituisce al principio costituzionale che impone di considerare il cittadino innocente fino a prova contraria, in aperto contrasto con i diritti civili, e un interrogatorio può spingersi oltre i limiti per avvicinarsi pericolosamente alla prassi medioevale della tortura. Le affermazioni di Giuseppe Vesco, il testimone chiave dell’accusa (morto in carcere in circostanze decisamente sospette), estortegli con sistemi non ortodossi e estremamente brutali, come dichiarò egli stesso (e come avrebbe confermato molti, troppi anni dopo un ex brigadiere), non suffragate dai fatti né dai debiti riscontri della scientifica, son parse sufficienti per condannare quattro giovani al carcere a vita o comunque a una lunga prigionia. La storia di Giuseppe Gulotta deve far riflettere, come monito contro l’illusoria idea dell’infallibilità della giustizia, anche se qui entrano in gioco ben altri fattori come un probabile, intenzionale depistaggio per cui sono state sacrificate quattro esistenze, sono state distrutte quattro, anzi cinque vite (oltre a quelle dei due carabinieri uccisi).

Fuori dal carcere Giuseppe Gulotta – che ha raccontato la sua devastante esperienza nel libro “Alkamar – la mia vita in carcere da innocente”, scritto insieme al giornalista Nicola Biondo – stenta a reinserirsi perché trovare lavoro dopo i cinquant’anni è difficile per chiunque, specie in tempo di crisi e l’assoluzione con formula piena non basta, così come non basta l’indennizzo concesso ad un innocente in luogo del risarcimento richiesto dagli avvocati, in cambio di una vita “rubata” per motivi inconfessabili. La sua storia è diventata uno spettacolo, emozionante e coinvolgente, in cui è possibile identificarsi nelle vittime di una situazione quasi kafkiana – mentire per salvarsi, costretti a firmare una falsa confessione, per poi dire la verità davanti al giudice ma non essere creduti, ma anzi condannati e imprigionati – o costretti all’esilio – finché durante una trasmissione televisiva come Blu Notte una testimonianza decisiva rimescola le carte, e finalmente si arriva a un nuovo processo e all’agognata assoluzione. Troppi morti – i due carabinieri (si chiamavano Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta) e poi Giuseppe Vesco e Giuseppe Mandalà – e troppi misteri irrisolti: per le vittime della strage di Alcamo Marina non è ancora stata fatta giustizia.


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