Milano, 19 ottobre 2017 - 11:16

Melinda Gates: «Aiuti in ritirata. Il rischio? Il disimpegno dei Paesi ricchi»

«In pericolo i risultati ottenuti contro povertà e malattie». Per incalzare i governi la fondazione della famiglia ha curato un rapporto sulla distanza dagli obiettivi 2030.

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«Negli ultimi 15 anni abbiamo assistito alla più straordinaria riduzione della povertà, delle malattie, della malnutrizione e della mortalità infantile a livello planetario. Ma questi progressi non sono un dato acquisito anche per il futuro, non sono inevitabili. Molti fattori stanno mettendo in pericolo i risultati che abbiamo ottenuto, qui negli Stati Uniti e negli altri Paesi donatori. L’impegno si sta indebolendo, è molto pericoloso». Rientrata dopo un lungo giro a Seattle, nella sede della fondazione filantropica che ha creato 17 anni fa insieme al marito Bill, Melinda Gates riflette col Corriere della Sera sui rischi di una caduta di tensione nella lotta contro la povertà e le malattie: la battaglia per il riscatto degli ultimi del mondo.

Per sensibilizzare governi e opinione pubblica internazionale la Fondazione ha redatto un rapporto sulle cose fatte e sulla distanza che ancora ci separa dal raggiungimento degli obiettivi per lo sviluppo sostenibile fissati nell’Agenda 2030 delle Nazioni Unite. E per incalzare tanto i Paesi donatori quanto quelli poveri (non sempre collaborativi anche se sono loro a ricevere gli aiuti), Bill e Melinda Gates hanno presentato questo documento a New York durante la settimana dell’Assemblea generale dell’Onu. E si sono impegnati a redigerlo ogni anno fino al 2030 per evitare che i governi dimentichino gli impegni da loro stessi sottoscritti.

Temete una sindrome da «missione compiuta». Stanno rallentando gli aiuti dei i Paesi donatori che cominciano a parlare di taglio delle spese di assistenza. Non c’è anche una sorta di stanchezza, anche nei governi di alcuni Paesi poveri ancora bisognosi d’aiuto?
«Il rischio principale è quello di un disimpegno dei Paesi ricchi. Pensi al “Global Fund” per combattere Aids, tubercolosi e malaria. Per decenni ha dato risultati straordinari. Straordinari ma non definitivi. E ora i progressi fatti sono minacciati dalla prospettiva di un taglio dei fondi. Deve essere chiaro che una riduzione anche solo del 10 per cento dei fondi per l’Aids si tradurrebbe in cinque milioni di pazienti morti in più da qui al 2030. Poi, certo, è vero che in alcuni Paesi in via di sviluppo instabilità e tensioni interne ci mettono in grande difficoltà, ma questo non può fare ombra ai tanti casi nei quali troviamo leadership efficaci impegnate in un positivo cambiamento. Uno degli esempi più significativi è quello del Senegal col suo successo nel migliorare la diffusione dei servizi per la maternità e la contraccezione. Nella cultura senegalese è radicata l’aspettativa che ogni donna abbia molti figli. E le donne che vogliono usare contraccettivi spesso non li trovano nelle strutture sanitarie. Il governo si è dato da fare per migliorare la loro distribuzione mentre a livello locale una fitta rete di attivisti ha cercato di stimolare la domanda delle donne in questo campo. Centinaia di imam, poi, si sono impegnati nell’educazione delle famiglie: hanno spiegato come lasciare una certa distanza tra una gravidanza e l’altra sia importante per la salute tanto della madre quanto del bambino. E poi c’è stato un ministro della Salute attivissimo e molto popolare - Awa Marie Coll Seck, un medico - che ha trasformato il Senegal in un caso virtuoso, esempio per tutta l’Africa Occidentale».

Melinda con il marito Bill in India Melinda con il marito Bill in India

Non c’è solo una generica stanchezza dei Paesi ricchi rispetto agli impegni di assistenza. Davanti alla rapida crescita della filantropia privata qualche governo alle prese con problemi di bilancio che affliggono quasi tutti i Paesi occidentali è tentato dal disimpegno. Di recente il presidente Trump ha cancellato il contributo americano al Family Planning Fund dell’Onu. Un vuoto parzialmente colmato da un versamento della vostra Fondazione. Non temete che cresca la tentazione dei governi di trasferire responsabilità sociali collettive a organizzazioni filantropiche private?
«Sarebbe un errore molto grave pensare che una fondazione privata possa rimpiazzare anche solo parzialmente l’impegno dei governi. È un’equazione che non funziona. Non può funzionare. Senza la leadership e l’impegno continuo dei governi verranno cancellati i grandi progressi degli scorsi decenni».

Melinda Gates in India Melinda Gates in India

Bisogna continuare a battersi contro le malattie, ma la nuova emergenza in Africa è data dalla povertà, dalla violenza politica e dalle migrazioni di massa verso l’Europa. Cosa si può fare per ridurre e regolare i flussi e per aiutare questi popoli a vivere vite migliori nei loro Paesi?
«L’unica soluzione duratura per il problema delle migrazioni è quella di combatterne alle radici le cause. E qui torniamo a malattie, malnutrizione e povertà. Gli aiuti allo sviluppo dei Paesi ricchi consentono a quelli più fragili di trovare un po’ di stabilità. Se vengono usati in modo corretto mettono questi Paesi sul sentiero dell’autosufficienza».

Uno dei più importanti successi l’avete colto nel campo delle vaccinazioni nei Paesi in via di sviluppo con l’Alleanza Gavi. Ora, però, è proprio nei Paesi sviluppati, Italia compresa, che si va diffondendo una certa ostilità alla profilassi obbligatoria. Minoritaria ma pericolosa. Trovate anche voi ostacoli simili nei Paesi poveri? Ho letto di operatori che somministrano vaccini uccisi in Pakistan.
«È vero, alcune di queste strutture di profilassi sono state attaccate. Per fortuna si tratta di fatti molto rari. In Pakistan e Afghanistan i nostri partner si sono resi conto che, lavorando insieme ai leader delle comunità locali, si ottiene fiducia. Quanto alle vaccinazioni in genere, è stato provato oltre ogni ombra di dubbio che sono efficaci e sicure. Non vaccinando tuo figlio metti lui e gli altri bambini a rischio, punto e basta. In Africa ho conosciuto donne che hanno camminato per molte miglia attraverso paludi e deserti per far vaccinare i loro figli. Loro conoscono bene i rischi delle malattie. In Occidente, invece, siamo vittime del nostro successo: grazie ai vaccini da decenni non vediamo più morire i nostri bambini per queste patologie».

La vostra fondazione ha 17 anni. Com’è evoluta la sua funzione sociale? «Puntiamo sempre, come obiettivo di fondo, alla riduzione delle diseguaglianze perché per noi tutte le vite hanno lo stesso valore. Bill e io abbiamo molta fiducia nella tecnologia. Ma da sola non basta. Per questo abbiamo lanciato il “Goalkeepers Report”, il nostro rapporto annuale: dobbiamo responsabilizzare i governi e le altre istituzioni».

Come giudica la rapida crescita nel mondo filantropico del ruolo di “megadonors” generosi ma a volte portatori di una loro agenda politica?
«Società robuste accettano e incoraggiano una pluralità di punti di vista. Ci sono vantaggi e svantaggi, ma nel complesso questi “megadonors” rappresentano più un’opportunità che un rischio. L’importante è che ci sia trasparenza. Noi, ad esempio, diamo conto ad organismi internazionali come l’Ocse del modo in cui utilizziamo il denaro che riceviamo. Comunque sono impressionata dai grandi progressi della filantropia Usa. Mark Zuckerberg e sua moglie Priscilla Chan sono l’ultimo, straordinario esempio di questo impegno».

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