29 dicembre 2017 - 22:15

Cognetti, alpinista-scrittore: «Io in cammino sull’Himalaya»

di Roberto Iasoni
I 300 chilometri 0nella regione più selvaggia del Nepal. «Volevo tornare ad assaporare la vita. Finito il viaggio, alla prima doccia, l’acqua calda mi ha commosso»

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«E poi, al quindicesimo giorno, quando ti illudi di essere stato accettato, la montagna punisce la tua arroganza». Il vento è gelido. Nelle gambe ha 1.400 metri di dislivello e quattro ore di salita, non sta più in piedi, non riesce a parlare. È a quel punto che Paolo Cognetti si chiede: ma che ci faccio qui?

Qui, cioè: nel vuoto che risuona di echi indecifrabili tra Dho Tarap e Kagbeni. Nella regione più selvaggia del Nepal, il Dolpo. A Nord della catena himalayana. Ottomila chilometri quadrati, meno di tremila abitanti. Tibetani per lingua, cultura e religione, ma cittadini nepalesi. Un fossile vivo, scampato all’invasione cinese e rimasto sospeso nel suo tempo scandito dall’inseguirsi selvaggio del giorno e della notte. Lo scrittore milanese autore del caso editoriale dell’anno, Le otto montagne, è partito all’inizio di ottobre con Stefano Torrione, fotografo, e Nicola Magrin, suo l’acquerello sulla copertina del romanzo. Il racconto dei 22 giorni di fatica e meraviglia, 300 chilometri di sentieri, otto passi oltre i 5.000 metri, è ora in edicola, nel bimestrale Meridiani-Montagne.

Cognetti, che ci faceva là?

«Cercavo un’autentica civiltà di montagna, e forse volevo anche tornare ad assaporare la vita. Finito il viaggio, alla prima doccia, con l’acqua calda, mi sono commosso».

In tenda rileggeva «Il leopardo delle nevi», di Peter Matthiessen.

«Cerco una lingua che racconti il paesaggio, non come sfondo, ma come presenza che entra nelle storie. Pochi narratori ci riescono. Matthiessen trova parole per dire l’inspiegabile. Ci riescono anche Chatwin, Hemingway, la Blixen. Tra gli italiani, Primo Levi e Mario Rigoni Stern».

Che cosa le ha lasciato il Nepal?

«Il desiderio di dare una mano. È un Paese povero che si sta urbanizzando precipitosamente, con tutte le conseguenze. Per non parlare del terremoto e dei monsoni. Ho visitato due strutture a Katmandu: Casa Nepal, per le donne vittime di violenza, e Sanonani, una casa-famiglia per orfani. Ho in mente qualche progetto».

Torniamo al mal di montagna: ha sofferto molto?

«L’ho scoperto a otto anni sul Monte Rosa, lo conosco. Mi dà una fortissima nausea, inappetenza, debolezza. I rimedi sono tanta pazienza, per acclimatarsi con gradualità, e bere molto».

Scrive: «È la nostra presenza il più grande inquinamento». C’è un senso di colpa?

«In quella povertà noi troviamo una ricchezza che sentiamo di aver perduto. Ma se chiedi agli abitanti del Dolpo che cosa desiderano ti senti rispondere strade, macchine, turisti. Non abbiamo il diritto di provare nostalgia per la loro povertà. Un montanaro una volta mi ha detto: quando la strada arriva sembra che porti qualcosa, invece poi scopri che porta via. Più che giudicare, bisogna comprendere e mediare».

Scrivere e camminare: c’è una relazione?

«Sì: entrambe sono ritmo ed esplorazione. Ma il libro può non portare da nessuna parte, se è un pessimo libro, mentre il cammino ha sempre un punto d’arrivo interessante».

Quaderno o computer?

«Prima il quaderno: nello zaino è più pratico. Poi il computer: non per mettere in bella, ma per rielaborare».

Ci parla della sua baita?

«Ce l’ho in affitto da dieci anni: è piccola, 5 metri per 5, a quota 1.900, in alta Val d’Ayas. La abito dall’inizio della primavera alla fine dell’estate. D’inverno il pascolo si trasforma in una pista da sci... È l’unica baita abitabile, le altre tre — i miei fantasmi — sono ruderi. Ho sempre sognato di mettere a posto il villaggio e quest’anno, con i guadagni del libro, ho comprato la stalla, voglio trasformarla in rifugio. Vicino c’è un bosco di abeti e larici, da cui partono i sentieri che vanno a 2.500 e 3.000 metri. Esco di casa, in un paio di ore sono su».

Scrive: «Qualcosa negli uomini ti respinge, quando non li vedi per un po’, comincia a sembrarti tutto più bello». Meglio la solitudine?

«Vivo con un cane, Lucky. Federica, la mia compagna, passa l’estate con me. In agosto arrivano gli amici. Tanti. Non sono un eremita».

Nel Dolpo ha incontrato la cagnolina Kanjiroba.

«La penso come incarnazione dello spirito del luogo, la sua presenza aveva qualcosa di spirituale. Ma qui andiamo su un terreno delicato».

La spiritualità la mette a disagio?

«Non è questo. In Nepal ho sentito che una parte sensibile di me si svegliava: è difficile dire che cosa sia. Sentivo di vivere in una diversa relazione con tutto ciò che mi circondava. Questo spirito lo puoi trovare in una montagna, nel vento, in un cane...».

È religioso?

«Ho ricevuto un’educazione religiosa, e non me ne posso liberare. Puoi ripudiare gli insegnamenti, non il sentimento. La mia religione ha a che fare con le montagne».

Ancora dal reportage: «Là dove arriva l’immaginazione c’è la strada di domani». Dove arriva oggi l’immaginazione?

«Ho passato gli ultimi vent’anni a scrivere. Volevo diventare uno scrittore, andavo dritto come un treno. Ora si è aperta un’età nuova, in cui sento di voler fare tanto altro. Innanzitutto in montagna, dove ho molti progetti: il rifugio, l’Himalaya, gli altri viaggi... Non ci sono più solamente libri da scrivere».

© RIPRODUZIONE RISERVATA

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