Milano, 30 settembre 2017 - 22:57

Le «imam» delle carceri

È stato avviato un progetto sperimentale anti-radicalizzazione su un migliaio di reclusi di otto penitenziari italiani. Fra le guide spirituali ci sono anche quattro donne: «Spieghiamo il Corano, spesso ad analfabeti»

Yamina Salah è la presidente delle donne musulmane d’Italia Yamina Salah è la presidente delle donne musulmane d’Italia
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La prima volta, al carcere di Bollate, non tutti le hanno prese sul serio: alcuni sono rimasti nelle celle, diffidenti o, forse, oltraggiati da quella presenza femminile. Ma lei e la sua collega Soraya non si sono perse d’animo. «Abbiamo parlato del perdono», dice: «Se il Creatore perdona noi, noi dobbiamo perdonarci a vicenda...». Libro alla mano, Sura 39, versetto 35: «Allah cancellerà le loro azioni peggiori e li compenserà per ciò che di meglio avranno fatto».

Yamina e le altre

Già, perché Yamina Salah se l’è studiato a fondo, il Corano, s’è laureata in diritto islamico ad Algeri, è presidentessa delle donne musulmane d’Italia e può spiegare detti e precetti del Profeta a chi non è neppure in grado di leggerli («in prigione abbiamo trovato un 70 per cento di analfabeti tra la nostra gente, tanti non hanno fatto neppure le scuole, per questo sono così rigidi, chiusi»). L’Ucoii, la più forte organizzazione islamica italiana, ha mandato lei e Soraya Houli a Milano, la marocchina Fatna Ajiz a Verona e la tunisina Fattum Boubaker a Canton Mombello, nel Bresciano, a predicare tra i detenuti che vengono da Paesi musulmani, per prevenire la radicalizzazione, sostituire parole di tolleranza a litanie di rancore: quattro guide spirituali in aggiunta a otto imam accreditati dal nostro ministero. «Un salto culturale», dice Gennaro Migliore, sottosegretario alla Giustizia: «Una delle maggiori distorsioni del radicalismo sta proprio nel disconoscimento del valore delle donne».

Il progetto sperimentale

«La prima volta erano cinquanta detenuti, nel teatro del carcere», racconta Yamina (Bollate ha un’importante tradizione di recupero legata alle sue attività teatrali): «Poi abbiamo sentito le voci che giravano tra loro... “sono donne in gamba”, dicevano. È andata meglio». Il progetto, in gestazione per oltre un anno, è infine partito sei mesi fa: in collaborazione tra il Dap (il nostro dipartimento penitenziario) e l’Unione delle comunità islamiche d’Italia. L’Ucoii, un tempo assai vicina alla Fratellanza Musulmana, è stata riformata con coraggio dal suo presidente Izzedin Elzir, palestinese di Hebron, imam a Firenze, convinto che la fede sia una libera scelta e il velo lo sia ancora di più (ha una figlia diciassettenne, Lin, che, benché credente, non lo indossa): «Alle donne che subiscono imposizioni o violenze noi diciamo: denunciate, denunciate, denunciate».

I numeri

Le carceri coinvolte nel progetto pilota sono per il momento otto (Torino, Cremona, Modena, Sollicciano a Firenze, San Vittore a Milano oltre a Bollate, Canton Mombello e Verona). La partecipazione va dagli 80 ai 140 detenuti per carcere: dunque circa un migliaio di detenuti sugli undicimila provenienti da Paesi islamici oggi reclusi in Italia. È un inizio, un segno. Secondo il XIII rapporto dell’associazione Antigone (che cita il ministero della Giustizia) i detenuti islamici a rischio sarebbero 365. Di questi, 165 sono «monitorati» («con condanne o precedenti di proselitismo»); 76 «attenzionati» (per atteggiamenti che fanno «presupporre la vicinanza all’ideologia jihadista», il più scontato dei quali è l’esultanza dopo gli attentati) e «124 segnalati» («per relazioni con soggetti che appartengono ai due precedenti livelli»). Un aggiornamento delle cifre, benché non ufficiale (si tratta di dati riservati), induce a ritenere che sensibili al contagio jihadista possano essere al momento almeno quattrocento detenuti. I criteri sono elaborati dal Nic, il nucleo investigativo centrale della polizia penitenziaria, e dal Casa, il comitato di analisi strategica antiterrorismo. Migliore sostiene che al Casa circolino «ogni settimana notizie aggiornate che vengono dal carcere e dal mondo attorno al carcere». Il rapporto con le comunità «è fondamentale», dice, per conoscere e prevenire. Ma il terreno è assai accidentato. Il criminologo Alvise Sbraccia ha spiegato per il dossier di Antigone come gli imam venuti dall’esterno, per bravi e motivati che siano, vengano spesso considerati «spie» dai detenuti musulmani che preferiscono scegliersi un imam tra i compagni di prigionia (per l’Islam, imam può essere chiunque diriga la preghiera e venga eletto dagli altri). Ciò fa capire perché in dieci anni siano stati appena 22 gli imam accreditati dal ministero dell’Interno e ammessi nei nostri istituti di pena. E in fondo dà anche la misura della sfida lanciata dall’Ucoii.

La sfida

Gli italiani convertiti all’Islam sono un centinaio. «E non devono assolutamente radicalizzarsi perché non potrebbero neppure essere espulsi, appunto in quanto italiani», ragiona Izzedin Elzir: «In carcere ci si può convertire per cose semplici, piccole, per gentilezza, per un dattero...». Nel totale dei detenuti a rischio vanno naturalmente compresi i più a rischio di tutti, quei 44 arrestati per reati di terrorismo internazionale, sottoposti al regime di As2 (alta sicurezza 2) a Sassari e Rossano Calabro. Da laggiù, la strada delle guide islamiche e della ragione contro il radicalismo appare ancora tutta da inventare. «Eppure dobbiamo spiegare a queste persone, che proclamano con durezza “il Profeta ha fatto così, il Corano dice così”, come nella pratica dell’Islam ci siano tante cose che si possono fare in modo più leggero, più facile», sorride lieve Yamina. Che si coccola il ricordo migliore: «A giugno un ragazzo che doveva essere scarcerato mi ha detto: “Quale moschea mi consigli?”. Aveva paura di finire in una moschea radicale, cercava già il pensiero più equilibrato. Uscendo ha pianto».

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