Milano, 24 ottobre 2017 - 21:38

I Razzouk, sette secoli di tatuaggi
«Tutti vogliono le mie croci copte»

A Gerusalemme una famiglia araba si tramanda l’antica arte da generazioni: «Sono cristiano copto e palestinese, ma i giovani israeliani si fanno disegnare la pelle da me»

Wassim Razzouk Wassim Razzouk
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L’inchiostro sintetico ha sostituito la polvere di carbone impastata con il vino. I gesti sono gli stessi di settecento anni fa, quando la famiglia Razzouk tatuava la croce scura all’interno del polso destro, solo chi presentava quel marchio di fede poteva entrare ad ascoltare la predica. Allora come oggi essere copto, un cristiano nell’Egitto musulmano, era rischioso e per evitare le conversioni forzate i genitori imprimevano sulla pelle dei figli il segno del sacrificio di Cristo, indelebile come la loro devozione.

Simboli e metafore

Wassim Razzouk a 43 anni è l’ultimo discendente, ha accettato di imparare il mestiere dal padre Anton solo perché ha capito che nessuno dei fratelli avrebbe salvato la tradizione. Che adesso continua in una piccola bottega tra le viuzze di Gerusalemme, dove un antenato arrivò da pellegrino nel 1750 e scelse di stabilirsi dentro le mura della Città Vecchia. Per permettere ad altri pellegrini come lui di celebrare quel viaggio tra le pietre sacre, di riportare a casa la prova stampata sul corpo, di ripetere così il rito a cui si sottoponevano già i crociati: la figurina stilizzata di San Giorgio che uccide il drago, l’arcangelo Michele, la Vergine Maria, gli agnelli e le rose, la stella di Betlemme. «Ancora oggi quasi tutti mi chiedono la Croce di Gerusalemme», spiega Wassim. Come Stephen che ha bigiato qualche ora del tour organizzato da una congregazione americana della Virginia per lasciarsi incidere il primo tatuaggio della vita: «È anche l’ultimo, voglio solo ricordare il mio incontro con la Terra Santa», spiega mentre la moglie riprende l’operazione con il telefonino.

Quegli stampi in legno

Anton ha lasciato in eredità a Wassim i 168 stampi in legno di ulivo che a sua volta aveva ricevuto dal padre Yacoub. Da secoli passano di generazione in generazione, il negozio è considerato il più antico al mondo ancora in funzione. «Mio nonno è la celebrità della famiglia perché negli anni Trenta tatuò Hailé Selassié in fuga dall’Etiopia dopo la conquista italiana». Il frammento con inciso il Leone di Giuda, che per i rastafariani rappresenta l’imperatore, sta protetto in una vetrinetta e viene ancora scelto dai pellegrini africani. Al posto della fuliggine usata fino a qualche decennio fa, Wassim pigia il timbro sulla carta copiativa prima di appoggiarlo sulla pelle per imprimere il disegno da eseguire, poi con l’ago ricalca le linee create dal primo Razzouk tatuatore.

Il valore del dialogo

Qualche settimana fa è stato invitato a partecipare — unico arabo — all’evento organizzato ogni anno da un gruppo di artisti israeliani. Mettono il talento e l’inchiostro a disposizione delle vittime di attentati: i sopravvissuti vogliono lasciarsi «cicatrici» che hanno scelto, non quelle devastanti marchiate a fuoco dall’esplosione. «Nel 1948 i miei sono dovuti scappare dalla Città Vecchia e ancora durante la guerra del 1967. Ma non ho nemici. Sono orgoglioso di essere palestinese, soprattutto sono cristiano e amo il mio prossimo. Da copto capisco che cosa significhi subire il terrorismo».

Antichi retaggi

Dopo il conflitto del 1948 a esercitare il mestiere in Israele è rimasto solo Yacoub per una ventina d’anni, gli altri arabi cristiani erano fuggiti o avevano chiuso, la concorrenza degli ebrei israeliani non esisteva: i rabbini vietano di «stamparsi segni addosso» (Levitico 19:28) e i tatuaggi sono stati a lungo considerati un tabù, associati ai numeri con cui i nazisti bollavano sugli avambracci i prigionieri nei campi di concentramento. «Adesso vengono da me i giovani israeliani, chiedono simboli di pace o disegni moderni, vedono la Harley Davidson posteggiata fuori, sanno che posso riprodurre lo stile delle gang. Adoro viaggiare in moto, è un pellegrinaggio anche quello».

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