13 gennaio 2018 - 10:13

«Mio figlio Youssef terrorista, ma io non ho saputo criticare la sua fede»

Parla Valeria Collina, la madre italiana dell’attentatore marocchino del 3 giugno scorso a Londra: «Non ho avuto coraggio, il suo un falso Islam»

Youssef Zaghba (Epa)
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BOLOGNA- «Mi sono comportata da mamma, non ho voluto turbare le certezze di mio figlio». Quelli di Valeria Collina sono i dubbi di una qualsiasi madre, ma suo figlio Youssef Zaghba è uno dei tre terroristi che sul London Bridge, il 3 giugno, hanno ucciso otto persone finché le pallottole degli agenti di Scotland Yard non hanno messo fine alla loro follia omicida. Sono sette mesi che lei, mamma di 68 anni convertita all’Islam da più di venti, continua a chiedersi nel nome di chi suo figlio abbia agito quella notte e se lei avrebbe potuto far qualcosa. Domande affidate a un libro, «Nel nome di chi» edito da Rizzoli. Valeria, sposata con un marocchino da cui è separata, vive sulle colline del Bolognese.

Crede di doversi rimproverare qualcosa?
«Non ho avuto il coraggio di mettere in dubbio la fede di mio figlio. Faccio un esempio: nel Corano, come nella Bibbia, ci sono dei racconti mitici come quello di Adamo ed Eva, che hanno un significato letterale e uno metaforico. Mio figlio ha sempre considerato solo il significato letterale del Corano e io non ho voluto turbare la sua coscienza. Aveva un’idea rigida dell’Islam che non poteva essere messa in discussione, ma purtroppo questa visione è l’impostazione prevalente tra le comunità musulmane».

Non crede che dicendo questo possa attirarsi delle antipatie?
«Credo sia un problema comune alle religioni monoteiste, si crede di avere la Verità che Dio ha rivelato a noi. Per questo dico che bisogna studiare il Corano. Anch’io ho una fede profonda ma sono piena di dubbi e ripensamenti».

Pensa che Youssef abbia scelto il martirio spinto da questa visione dell’Islam?
«Un anno prima dei fatti di Londra fu fermato all’aeroporto di Bologna mentre tentava di andare in Siria. Credo che volesse andare lì non per arruolarsi ma per costruirsi una gabbia che lo tenesse lontano dalle tentazioni. Qui a Bologna aveva una vita normale, aveva amici, andava in discoteca, aveva delle debolezze interiori che sentiva come sensi di colpa nei confronti dell’Islam. Penso abbia sofferto dell’incapacità di accettare se stesso e la cosa che mi turba di più di quello che ha fatto mio figlio, che non ho ancora elaborato, è che qualcuno ha approfittato di queste sue debolezze, trasformandolo in un mostro di violenza. Lui non aveva odio dentro di sé...».

Nel libro ha scritto di essere stata anche allontanata dalla sua stessa comunità musulmana.
«Purtroppo nelle moschee quando succedono queste cose si tende a chiudersi, si ha paura e lo capisco. Quando Youssef tentò di andare in Siria, due famiglie di amici molto stretti mi hanno chiesto di non chiamarli più: avevano paura di essere additati come jihadisti. Ma il risultato è che io sono rimasta sola con mio figlio e le sue angosce. Per assurdo sono stata aiutata più dagli agenti della Digos che lo avevano fermato. Dicendo questo non voglio accusare nessuno, ma io non voglio chiudermi, voglio reagire. Le donne musulmane dovrebbero fare di più per aiutare il dialogo. Mi sono promessa di fare tutto quello che è nelle mie possibilità per evitare che altre madri debbano piangere i propri figli, che siano terroristi o innocenti capitati sulla loro strada».

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