18 gennaio 2018 - 21:27

Scampia, il judoka e i ragazzi strappati alle baby gang

Nella palestra di Gianni Maddaloni ritorna uno dei giovani che ha pestato Gaetano senza motivo, insieme a un gruppo di coetanei. Dalle violenze di strada, l’olimpionico li riporta sul tatami e fa anche un po’ il papà per i suoi allievi

L’olimpionico Gianni Maddaloni L’olimpionico Gianni Maddaloni
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È riapparso mercoledì pomeriggio, occhi bassi: «O’ Maé, ho sbagliato». Uno dei piccoli teppisti che una settimana fa hanno spaccato la milza a Gaetano, pestandolo senza motivo in una stazione della metro, aveva preso qui la cintura gialla, poi era sparito, risucchiato nella sua banda di bambini feroci. La madre, temendo che finisse al minorile, l’ha riportato a forza in questa palestra di Scampia a due passi dalle Vele e dalla mitologia storta di «Gomorra», sotto l’ala di Gianni Maddaloni che qui è «Il Maestro», «O’ Maé», ma è anche un po’ il papà che a tanti suoi allievi manca. Gianni, prima di accettare di riprenderselo sotto tutela per sei mesi, gli ha detto solo: «Posso darti uno schiaffo?», e gli ha stampato in faccia una sberla da olimpionico. «Quello è il primo ceffone che prende dal giorno dell’aggressione», mormora «O’ Maé», con tono terapeutico. È una vita che combatte non a chiacchiere, Maddaloni, su questa trincea che raddrizza ragazzini Bes (con Bisogni educativi speciali secondo il ministero); li strappa dalla strada e li porta sul tatami, ispirando docufilm e fiction (con Fiorello), attirandosi lodi pubbliche ma scarsissimi pubblici sostegni (si combatte anche con le bollette della luce). La palestra di judo dove i suoi figli sono diventati medaglie d’oro (Pino, il maggiore, ha vinto Sydney 2000) adesso è popolata di nuovi «figli». Duecento bambini della zona e almeno venti ragazzi della squadra agonistica, «quasi tutti Bes», cui Gianni pone la domanda chiave, «vuoi diventare figlio mio?», punendoli quando deve, passandogli poi perfino la paghetta settimanale. Tanti, qui, stanno risalendo dall’abisso e forse ancora ne sentono l’alito.

Il mito del capobanda

Come il diciassettenne che chiameremo Ciro, nato e cresciuto in un «lotto» qui vicino, un campioncino da due allenamenti al giorno. «Beh, uno la rabbia la deve mettere da qualche parte», si schermisce lui. Prima la metteva nei posti sbagliati, a scuola prendeva otto rapporti al mese. «Ho cominciato a fare a mazzate a otto, nove anni. Con una decina di compagni miei uscivamo e, se vedevamo un gruppo di fuori, pigliavamo questione: mi stai guardando? Di dove sei? E giù mazzate... I miti nostri? I capoclan della zona, gli volevamo piacere. No, niente nomi, mi vuoi fare morì? Comunque gente grande, gente buona, la camorra fa male ma aiutava a campare, portava danari, oggi porta solo morti». Ciro parla come un trentenne ma s’è fermato alla terza media, «la scuola, eh?, per quello che serve... i diplomati lavano i piatti», dice. «Io non ho paura, la fame sì, mi fa paura, so cos’è. Da me eravamo sette, mio padre stava con un boss, mio fratello s’è fatto sette anni per spaccio internazionale, i nemici dei tempi delle mazzate saranno diventati killer, non lo so. Io sono il più piccolo di casa, mi ha salvato un signore che mi ha portato dal maestro. Mo’ quando parla il maestro prendo appunti: insieme fino all’ultimo respiro, con onore e cuore». La foto del maestro sta sul cellulare con cui ascolta Gigi D’Alessio e Rocco Hunt, «io sono come questa canzone»: Mammà tranquilla/ Che tuo figlio/ ‘Stu munno prima o poi/ S’o piglia/ E vendicamm’ tutti/ ‘E tuort’ ca subimm’. «Io voglio fare il soldato, voglio diventare un eroe».

«Venite nel mio clan»

Gianni «O’ Maé», coi suoi 61 anni di cui 43 sul tatami, è credibile per i suoi ragazzi perché era quasi come loro solo che ha preso un’altra via, «grazie ai ceffoni di mia madre». Va nelle scuole a parlare, e loro lo sentono: «Sono appena stato in un liceo di Secondigliano. Il professore poverello teneva i capelli dritti sulla testa! Quelli dai banchi facevano: ue’, stamm’ perdendo tiemp’... Uno m’ha detto: mo’ ci sparo in capa a questo. Allora li ho guardati. E ho detto: guaglio’, io sono del rione San Gaetano, quello del clan dei Capitoni... ho visto i compagni miei morire di droga e Aids, mio fratello Peppino morire in galera perché aveva sbagliato compagnia... voi volete morire giovani come Peppino o volete fare l’amore con le vostre ragazze? Venite nel clan Maddaloni in palestra, da voi non mi piglio un euro... Dobbiamo essere forti coi forti».

La ricetta: amore e severità

Può non piacere a tutti questo napoletano di periferia con una ricetta chiara per le periferie, «amore e severità, Stato e sport nelle scuole», che rimpiange il passato «dove nei film vinceva il bene, come Ursus» e deve avere trasmesso ai suoi l’idea naif di un passato meno fetente pure per la camorra: «Se offendevi una ragazza ti ordinavano: chiedile scusa». Non sarà... politicamente corretto quando dice che «se i guaglioni non vogliono andarci, a scuola, inutile insistere, mettiamoli a faticare, se no si drogano, si perdono e i professori diventano schiavi loro». Ma funziona, eccome, in posti dove, ancora mercoledì sera, dai falò della festa di Sant’Antonio i mini teppisti hanno preso a sassate i poliziotti mentre i genitori li incitavano dai balconi. Dove troppi papà sono dietro le sbarre. Come il papà di Nino, che ha cominciato a fare risse a 6 anni quando lui fu trasferito in un carcere più duro, in Sardegna. Adesso Nino ha 15 anni, è un altro campioncino: «A febbraio papà verrà qui da noi, in palestra, ai servizi sociali», dice. E per un momento ha gli occhi come doveva averli prima. Prima della rabbia, della paura, del dolore. Prima che gli servisse un «Maé».

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