28 marzo 2018 - 22:00

L’altra faccia della mafia
che tende la sua trappola
con gli «aiutini» quotidiani

La seconda stagione della fiction di Pif «La mafia uccide solo d’estate» torna dal 19 aprile al 24 maggio. Tra angoscia per l’assenza di legalità e presa in giro dei clan

di Gian Antonio Stella

Anna Foglietta e Nino Frassica in una scena della fiction Rai Anna Foglietta e Nino Frassica in una scena della fiction Rai
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«La raccomandazione è una delle forme con cui si manifesta la grazia di Dio. Nostro signore ha creato la raccomandazione per aiutare gli ultimi. Farli avanzare. Gli ultimi diventeranno penultimi, terzultimi, quartultimi, cinqul... Anche primi... Anche se è un caso raro perché anche nostro Signore ha le mani legate...».

La «spintarella»

Bastano quelle parole di Fra Giacinto, interpretato da Nino Frassica, per spiegare un mondo intero. Ma come: dopo anni di supplenze, liste d’attesa e frustrazioni la nostra Pia può avere finalmente l’agognata cattedra in una scuola elementare palermitana e si tormenta per aver avuto una spintarella? «Due Ave Maria, un’offerta per i poveri e non ci pensare più! Congratulazioni». Il cuore della nuova serie tivù (sei serate su Rai1 a partire dal 26 aprile) di «La mafia uccide solo d’estate» è lì. Nell’angoscia con cui l’aspirante maestra, per ancorare il marito che vorrebbe fuggire dalla Sicilia così disperatamente amata e odiata, forza la propria natura e i propri principi per chiedere controvoglia al fratello Massimo («mafioso riluttante» che affoga in quotidiani compromessi) quell’«aiutino» necessario per aver infine il posto fisso. Si fa avanti e si pente, esulta e si vergogna di esultare...

Illegalità diffusa

«Questa è la mafia. Quotidianità. È la mafia che non ti chiede di andare a uccidere qualcuno ma di accettare un aiutino...», sospira Pierfrancesco Diliberto, meglio noto come Pif, autore del piccolo grande film del 2013 benedetto da tanti elogi da spingere la Rai a tornare sul tema prima con una e poi un’altra serie televisiva, «Una volta che hai accettato l’aiutino, quando tornano e ti chiedono qualcosa è difficile far la parte del santo... Come ne esci? È una condizione pervasiva... L’illegalità diffusa... La rassegnazione... Lo fanno tutti.... Pensi al sindaco di Bagheria. Come fai a battere l’abusivismo se la tua stessa famiglia non ha rispettato le regole?».

I silenzi della Chiesa

Lo stesso Fra Giacinto, che nella prima puntata della fiction assolve Pia per aver chiesto la spinta, porta il nome di un frate vero: Stefano Castronovo che, come scrisse prima d’essere ucciso il vicequestore Ninni Cassarà, «interpretò i “voti” in modo a dir poco singolare» legandosi anche «a famigerati mafiosi». E ricorda altre figure di preti collusi per i quali il cardinale di Palermo Corrado Lorefice si è spinto giorni fa a dire: «Dobbiamo chiedere perdono per quanto la Chiesa non ha fatto nel passato nei confronti della mafia». L’altra faccia della Chiesa fatta di preti straordinari come Pino Puglisi, il parroco che un giorno spiegò in chiesa qual era il prezzo che le persone perbene erano chiamate a pagare per vivere a Brancaccio: «Anche per affittare una casa in una certa zona bisogna avere il permesso della mafia». Lo sapevano tutti coloro che erano presenti. Eppure, scriverà Vincenzo Ceruso nel libro «Le sagrestie di Cosa nostra», quella denuncia «fu come un pugno nello stomaco per l’intera sala».

Leggerezza

Ecco il punto: la nuova serie prodotta da Rai fiction, diretta da Luca Ribuoli, con Pierfrancesco Diliberto voce narrante e Claudio Gioè, Anna Foglietta, Francesco Scianna e i bambini Eduardo Buscetta e Andrea Castellana nei ruoli principali, pone a tutti una domanda: cosa farei io, al posto loro? Per rigare diritto a Cuneo, Udine, Pisa o Pescara basta avere la schiena diritta. Per farlo in certe aree, soprattutto nel Sud più degradato, dove troppi politici sostengono da sempre la tesi di Clemente Mastella («La raccomandazione è un peccato veniale. Anzi: non lo è per niente. Diciamo la verità: per decenni è stato il modo per riequilibrare le ingiustizie sociali») occorre uno sforzo supplementare. A volte eroico. E insieme una capacità di leggerezza. L’unica che, spesso, può aiutare a vivere.

Limiti sottili

Per capire l’impasto di politica e malaffare, animalesca ferocia e spagnolesche cortesie che dominava Palermo, va riletta una vecchia intervista al vecchio Giuseppe Alessi, fondatore della Dc isolana, primo presidente della Regione, senatore, deputato, uomo di potere. Era il 1995. Salvo Lima, la cui storia si intreccia spesso col racconto di Pif, era stato ammazzato da tre anni. «Un giorno Andreotti mi fa: “senti, Alessi, io non ho fiducia in nessuno in Sicilia perché quando interrogo un siciliano non ci capisco niente. Sento tante chiacchiere su Lima: cosa c’è di vero?”. Rispondo: ecché ne so io? Per me “mafioso” vuol dire un temperamento, una mentalità, un uomo che parla poco, che scrive poco, che sta solo alla fedeltà degli amici e crea una potenza intorno a sé. Uno così lo chiamo mafioso. Quindi Lima è un mafioso. Ma che sia collegato alla delinquenza personalmente non lo ritengo. Perché non lo ritengo per nessun uomo, neanche per i cosiddetti sospettati. Può essere amico di Tizio, aver fatto qualche favore a Sempronio... Ma la delinquenza...».

Lo zio Giulio

E lui, zio Giulio? Alessi: «Mi diceva con aria sgomenta: “Queste accuse... Non capisco... Lima è sempre così gentile, così delicato, mai una domanda indiscreta...” “Ma i mafiosi così sono”, gli dicevo io, “Sono riservati. Non ti domandano mai cose che ti possono compromettere. Il delinquente è un’altra cosa. Ma il mafioso è un uomo delicato, perché è un uomo di potere. E lo esercita in modo felpato». Spiegava infine, l’anziano patriarca, quanto disprezzasse Gian Carlo Caselli: «Pessimo magistrato. Fa la guerra alla mafia. Anche Rocco Chinnici voleva far la guerra alla mafia. Ma i giudici non devono fare le guerre. La mafia non ha mai ucciso chi rispetta la legge. Ma non accetta che un poliziotto o un giudice forzino le leggi per fare la guerra...».

Equilibrio sottile

Il fratello stesso del potentissimo viceré di Sicilia, il primario Beppe Lima, sdraiato in pigiama a righe su un divano di casa, diceva che lui non sapeva manco cosa fosse la mafia: «Quel che so della mafia io l’ho appreso leggendo “Il Padrino”». Solo quello? «Sì, solo quello che c’è scritto in quel libro». Mai capitato di incontrare un mafioso? «Passeggiando per strada forse. Chissà...». Quella era la Palermo, sospesa tra la speranza di una svolta con Piersanti Mattarella («Vuol cambiare tuuutto!», sogna Lorenzo) e le nuove mattanze, negli anni ricostruiti per la seconda stagione di «La mafia uccide solo d’estate». E l’equilibrio con cui la fiction riesce a reggersi miracolosamente tra lo spavento e l’allegria, l’angoscia e la presa in giro dei mafiosi ha davvero qualcosa di magico.

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