30 marzo 2018 - 19:20

Cos’è l’Hotel House di Porto Recanati, il «falansterio» dove si parlano 32 lingue

Il reportage apparso su Sette nel 2007 sull’Hotel House, l’imponente struttura (480 appartamenti di 66 metri quadrati distribuiti su 17 piani) abitata da oltre 4 mila persone, perlo più stranieri. A 500 metri da qui il pozzo degli orrori

di Agostino Gramigna (ha collaborato Paola Aurisicchio)

L’Hotel House di Porto Recanati L’Hotel House di Porto Recanati
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Sulla vetrata c’è affisso un cartello: «Si fa divieto a tutti di accedere in portineria durante lo smistamento posta. Grazie». Grazie è scritto in italiano, solo per comodità. Perché a voler accontentare tutti i condomini andrebbe scritto in 32 lingue. Tante quanto sono le etnie che abitano mangiano, dormono, spacciano, pregano e lavorano nel più grande e multietnico condominio d’italia: l’Hotel House (così si chiama) di Porto Recanati, sedici piani, quasi 2.000 abitanti dislocati tra i 480 appartamenti che s’innalzano in un palazzone a forma di croce vicino al mare, a un paio di chilometri dal centro del paese (qui viveva Cameyi Mossamet,15enne bengalese scomparsa nel 2010 e a poche centinaia di metri c’è il pozzo degli orrori in cui sono state trovate le ossa). Costruito negli anni ’70 per le vacanze estive del ceto medio umbro e marchigiano, gli appartamenti sono stati via via acquistati o affittati da senegalesi, cingalesi, argentini, colombiani, tunisini, rumeni, albanesi, brasiliani, algerini, marocchini, pakistani, nigeriani, cinesi e di recente famiglie del Bangladesh.

A vederlo da lontano, sembra un ecomostro. In effetti, ha poco dell’hotel nonostante il nome, una portineria collegata attraverso citofoni con ogni appartamento e qualche telefonata di prenotazione. «Ci spiace», rispondono a turno i quattro portieri dello stabile (tre italiani e un rumeno), «ma qui ci vivono solo famiglie». Donne con il velo, barbuti magrebini che passano la giornata nella moschea costruita nel 2002, pakistani che gestiscono il supermarket e la lavanderia, una nigeriana che fa la coiffeur e persino una leghista di Varese, sarta, che espone la bandiera del Carroccio dal balcone e va su tutte le furie quando gli africani la chiamano mamma Tania: «Ho quattro figli e sono bianchi, vi sembro possa essere vostra madre?» (però se deve allungare i pantaloni ai senegalesi che hanno un cane come lei, non si tira indietro). Ma anche giovani spacciatori, prevalentemente nordafricani, che riforniscono gli italiani in un continuo via vai che si può osservare, in certi orari, dal sedicesimo piano. Qualche mese fa i carabinieri hanno chiuso il bar gestito da un marocchino che vendeva panini alla coca (la droga era nascosta tra il salame e il pane). Molte famiglie sono stanche di questa situazione.Alcune del Bangladesh sono state minacciate per aver protestato. Ogni tanto scoppia una rissa, magari per futili motivi: l’ultima tra tunisini e senegalesi. Lavoro a parte, quasi nessuno esce dal modernissimo ghetto.

Solo il giovedì, giorno di mercato a Porto Recanati, il comune mette a disposizione un pullman che va a prendere le donne. Ma il posto, pur con molti problemi, non ha nulla a che vedere con la situazione di Padova, quella che è finita sui giornali per via del muro di lamiera costruito per separare il luogo dello spaccio e le abitazioni di nigeriani e nordafricani dalle case degli italiani. Qui, al contrario, si sperimenta, senza nemmeno volerlo, la convivenza tra le razze. Con tutto ciò che ne consegue. In questo stabile sono transitate, per un certo periodo, entraîneuse nigeriane che ogni sera alle 21,45 uscivano di casa per andare al lavoro e s’incontravano nell’ascensore con senegalesi musulmani che snocciolavano il rosario. «Non ho mai capito come facessero quei bei ragazzoni di 20 anni a essere insensibili a quelle donne, che pure li stuzzicavano », dice Alfredo De Rosa, un ex colonnello dell’aviazione che una decina di anni fa qui ha comprato casa. De Rosa abita al dodicesimo piano. Si occupa di varie cose, come per esempio della scuola (di fortuna) per donne che vogliono imparare italiano. È molto amico del portiere Marco Giantomassi, orgoglioso del suo lavoro, capace come nessun altro di smistare la posta (due ore al giorno). Giantomassi abita con sua madre, che non ama i neri, ma prova simpatia per i brasiliani. «Non è razzista», spiega il figlio, «rispetta le famiglie che mettono l’immondizia negli sgabuzzini (ce ne sono due per ogni piano). Molti scaraventano i sacchetti dalla finestra». Si lamenta della sporcizia Mohsen tunisino, piccolo imprenditore edile, che fa la manutenzione all’Hotel ed è nel consiglio della moschea. Ha comprato casa nel ’97, per 50 milioni (60 metri quadrati, due camere e soggiorno, senza corridoio).

Va d’accordo con tutti, dice, tranne che con i giovani tunisini: «Scusi l’espressione, ma è un razza di merda».A modo suo è un sociologo dell’immigrazione: «I cinesi lavorano e basta. Ai nigeriani non gliene frega niente del condominio. I pakistani sono seri e comprano case, come quelli del Bangladesh. I senegalesi sono i più educati. I tunisini? I giovani spacciano, tanto la legge italiana glielo permette». Nel tempo libero Mohsen va alla moschea, ricavata da quattro magazzini a pian terreno acquistati da un egiziano (l’imam ha 22 anni). Sua moglie sta in casa o chiacchiera con le amiche tunisine. Nel negozio della nigeriana? «Mai messo piede, nemmeno per farsi i capelli. Si fanno certe capigliature quelle, che ci andrebbe a fare mia moglie?». In casa ho tutto, dice Mohsen: due televisori, internet e playstation. Varcato il cancello e attraversato il parcheggio dell’Hotel House, a sinistra c’è la portineria, a destra ci sono gli ascensori (quattro per ogni ala dello stabile), uno dei luoghi d’incontro e di socializzazione. Per esempio le musulmane non escono mai di casa, tranne quando vanno a prendere i figli piccoli nell’atrio che ritornano dalle materne. Patricia dice che è in quel momento che si possono fare due chiacchiere tra donne diverse. Patricia è argentina e vive da sola con il figlio. Lava i piatti nei ristoranti e pulisce nei negozi dell’Hotel. Per integrare fa la babysitter a una bimba cinese che ormai vive con lei e capisce lo spagnolo. «Sua madre viene a trovarla una volta al mese. Non ha tempo, lavora sempre». D’estate quando fa caldo e la gente sta fuori, fuma assieme agli uomini. «Una volta un musulmano m’ha detto se volevo convertirmi. Cosa gli ho risposto? Non rompermi col tuo Maometto». Non invita nessuno a casa sua. Però quando organizza le feste di compleanno, arrivano un sacco di bambini: cinesi, senegalesi, pakistani, egiziani, sudamericani. «Solo gli italiani non vengono mai». Le sue uniche amiche sono una colombiana e una domenicana. A volte scambia qualche parola con le donne del Bangladesh che non portano il velo, nel pullman al giovedì. «Mi salutano pure le tunisine ma sono più chiuse». Nurun il velo lo porta perché fa risaltare meglio gli occhi.È la più emancipata delle donne del Bangladesh, l’unica che lavora. Ha un brillantino sul naso e guida persino l’auto. «Le mie amiche del Bangladesh sono tutte grasse. Non fanno altro che stare in casa e mangiare. Alcune mi ammirano, altre criticano la mia libertà». È una delle animatrici della scuola d’italiano per sole donne, dove gli uomini non sono ammessi: «I mariti accompagnano le mogli alla porta senza entrare», dice l’ex colonnello. «Sono stati i tunisini i primi a chiedere che non ci fossero classi miste. Le pakistane non vengono».

Hossen, pakistano, da dietro la cassa, dice che sua moglie non ha bisogno della scuola, è italiana. Gestisce il supermarket con il fratello, patito di palestra.Vende pure polli che fa arrivare dal Brasile perché costano meno. Quando tira vento, la pioggia picchia forte sui vetri e il mare si confonde con il grigio del cielo, il condominio acquista un volto davvero tetro. Le pareti sono scrostate, molti vetri sono rotti, l’illuminazione è scarsa, la scala antincendio non è agibile. Il condominio costa perché non tutti pagano la quota, dice l’amministratore Luca Quercetti. Mohsen lamenta il fatto che ci sono famiglie che vanno a lavorare e dimenticano di chiudere il rubinetto e se c’è una perdita di acqua non la segnalano. «Ogni razza ha abitudini diverse», spiega Wad, senegalese di 20 anni che abita con il padre e il fratello. Di fianco a lui vivono due ragazze albanesi che lo stuzzicano, soprattutto d’estate quando fa caldo e le porte sono aperte. Ma Wad è sprezzante. Le ignora: «Non mi piace il loro modo di pensare. Non sono serie». Apprezza però i pakistani, «brave persone», non sopporta i nigeriani perché «si credono americani» e soprattutto ce l’ha coi marocchini: «Fanno casino, rubano le radio, rompono i vetri, bevono alcol. E spacciano».

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