30 marzo 2018 - 21:52

Dal foglio di via alla strada, così nascono i «fantasmi»

La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie della scorsa legislatura ha stabilito che sul territorio nazionale vagano circa 500 mila migranti «invisibili»

di Goffredo Buccini

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Sunday è scappato, perché scappare dall’hotspot di Taranto, giura, «era facilissimo»: poi è saltato su un pullman, pensava d’arrivare alla periferia di Roma e s’è ritrovato a Perugia senza sapere come. Pure Mustafa è scappato, da un Cas, un centro d’accoglienza romano dove dice che lo mangiavano vivo gli insetti e avevano un bagno in quattrocento: è finito a Milano, sfruttato da un connazionale, a svuotare in nero cantine in zona Maciachini. Amir no, non è scappato, l’hanno semplicemente buttato fuori da un Cie («tornatene a casa tua») con un foglio di via in mano: lui non ha capito nemmeno cosa c’era scritto in mezzo a quei timbri ed è rimasto 24 ore seduto sul marciapiede di fronte al cancello, in trance, abbracciato al fagotto dei suoi stracci. «Mi sentivo un fantasma», sospira. Ecco come si diventa fantasmi in Italia. La Commissione parlamentare d’inchiesta sulle periferie della scorsa legislatura ha stabilito che sul territorio nazionale vagano circa 500 mila «invisibili»: migranti senza dimora e senza identità, quasi tutti rifluiti nella clandestinità per effetto di qualche passo falso più o meno grave o di una domanda d’asilo respinta che li ha fatti scivolare senza paracadute fuori dai circuiti dei Cas, dei Cie, degli Sprar (sigle esoteriche per livelli d’accoglienza diversi).

«Campano per strada»

Qualche mese fa il prefetto di Roma, Paola Basilone, ha illustrato il meccanismo ai commissari con estrema chiarezza: «Un censimento degli invisibili? Le forze di polizia lo fanno ogni volta che ne prendono qualcuno: lo identificano e gli consegnano il foglio di via. Soprattutto se non hanno precedenti penali, queste persone non possono essere arrestate e condotte nei Cie. Viene assegnato loro un termine entro il quale devono lasciare l’Italia, dopodiché è finita lì. Questo va a incidere pesantemente sul degrado della città, perché sono tutte persone che campano per strada... una situazione terribile». Così terribile che possiamo considerare il tunisino Amir, 36 anni, l’egiziano Mustafa, 18 e mezzo, e il nigeriano Sunday, 19, tre ragazzi fortunati. Perché a ripescarli dalla strada e a dar loro una seconda chance è apparso don Vittorio Bernardi, un prete tosto che a Roma li accoglie a Casa San Giovanni, in fondo alla Prenestina, senza prendere un soldo dei famosi 35 euro pro capite da sempre al centro delle polemiche. Fa tutto «con il cinque per mille e qualche donazione», don Vittorio, che ce l’ha col sistema, coi politici, con noi giornalisti. «Sia bravo: copra l’identità dei ragazzi con altri nomi, se no non troveranno mai più lavoro», è la sola condizione a questi colloqui. Sa bene che basta un bivio sbagliato perché i «suoi ragazzi» scivolino di nuovo fuori dal circuito, nella terra di nessuno dove i migranti diventano malacarne. E magari sarebbe toccato ad Amir quel giorno d’estate del 2011 in cui lo misero alla porta del Cie: «Mi avevano negato l’asilo politico ma non avevo commesso reati e non volevano più trattenermi. Così mi dissero: vattene, hai sette giorni. Ma non avevo documenti né soldi». Pareva uno zombie sul marciapiede quando lo vide Floriana, una psicoterapeuta buona che lo aveva assistito nei suoi cinque mesi al centro: «Che stai a fa’ qua?», gli chiese. E lo portò da don Vittorio. «Da allora ho lavorato coi cani», dice lui: «Li addestro». Ora però è disoccupato, anche se alla fine ha ottenuto almeno la protezione umanitaria. «Eh, ma tra un anno mi scade: se non trovo un altro lavoro rischio di tornare un fantasma!».

«Il pullman sbagliato»

Sulla Prenestina c’è insomma questo via vai di anime. Inquieta, assai inquieta è l’anima di Mustafa, fuggito (forse) per fame a 13 anni dall’Egitto. Nove mesi a Priolo, Sicilia. «Poi sono scappato. Mi hanno ripreso. Sono riscappato». I mesi di Milano sono un altro brutto ricordo. «Adesso voglio fare l’imbianchino e riprovare a prendere la terza media, m’hanno bocciato perché avevo troppo sonno per studiare dopo il lavoro, non sono pigro, giuro». Sunday voleva studiare davvero, a Lagos, a casa di suo zio. Ma è cristiano, lo zio musulmano gli ha detto «convertiti e ti manderò a scuola». Lui se n’è andato via a 16 anni: calvario classico, sevizie incluse, fino alla costa libica. Dall’hotspot di Taranto è riscappato perché, dice, nemmeno lì lo facevano studiare. A Roma, in uno Sprar per minorenni, pareva avesse trovato pace (e libri: ha preso con successo il diploma di terza media). Ma un giorno d’inverno sono arrivati i poliziotti: «Tu non sei minorenne, mi hanno detto». Lo era ancora, ma è finito per strada. Morto di freddo, è salito su un pullman: «Volevo andare a un commissariato per spiegarmi, farmi aiutare». Non era il pullman giusto: s’è addormentato e s’è risvegliato a Perugia. Da don Vittorio l’hanno portato tre giorni dopo, spaventato come un gatto. Ha chiesto asilo («ma non me lo danno perché nella mia zona della Nigeria non c’è Boko Haram», solo uno zio integralista non basta). Lavora da pizzaiolo a Ponte Milvio. In nero. «Senza contratto non mi danno il permesso di soggiorno e senza permesso di soggiorno non mi danno il contratto». Sembra un tragicomico Comma 22. Invece è l’ennesima curva dove si può deragliare. «I migranti che escono dalle misure di protezione, perché non hanno titolo o commettono reati, non possono stare liberi nella nostra comunità, vanno mandati in un luogo confinato». Lo sosteneva Romano Carancini, non un naziskin, il sindaco pd di Macerata: il nigeriano Innocent Oseghale, tracimato da uno Sprar e diventato spacciatore, era da poco in galera con l’accusa di avere massacrato Pamela Mastropietro. Luca Traini aveva appena sparato a sei migranti «per rappresaglia».

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