Milano, 1 ottobre 2017 - 22:38

Manzoni ha un animo rivoluzionario

L’inquietudine fu il motore della sua scrittura. Non grigio e severo, ma controcorrente
Due volumi usciti da Carocci e dal Centro studi dell’autore entrano nel suo laboratorio

Casa Manzoni durante la mostra «Time Out» a Milano su Giancarlo Vitali, curata dal figlio Velasco e conclusasi a fine settembre (foto Vaglia/ LaPresse) Casa Manzoni durante la mostra «Time Out» a Milano su Giancarlo Vitali, curata dal figlio Velasco e conclusasi a fine settembre (foto Vaglia/ LaPresse)
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«Manzoni nacque rivoluzionario. Andò sempre all’opposto della corrente di moda». Così scrisse lo scrittore scapigliato Carlo Dossi nelle sue Note azzurre. Suonerà strano a chi si porta dietro l’untuosa visione scolastica dell’autore dei Promessi sposi, ma è così. Dietro quell’aspetto grigio e severo, Manzoni è un rivoluzionario, e già lo stesso Dossi lamentava il paradosso che don Lisander passasse per il contrario: un reazionario. Introducendo Grammatica del buio (appena pubblicato dal Centro Nazionale Studi Manzoniani), la storica della lingua Mariarosa Bricchi lo spiega bene: Manzoni fu talmente inquieto e sperimentale da non accontentarsi mai di nulla, «sconfessando la legittimità dei suoi stessi scritti, indifferente al seguito che avevano generato, ma tormentato dalla loro inadeguatezza». Non fece altro che dissociarsi dalle sue proprie parole: «Chiosava, ritrattava, argomentava. Aggiungeva e correggeva. La sua intera opera è, anche, una negazione: percorsa dall’incompiutezza; dal silenzio; dal demone dell’autogiudizio». L’aspetto ancora più sorprendente è che questa scontentezza sia diventata il motore della sua scrittura, una scrittura che Bricchi definisce «di una specie ostile a se stessa». Guardata nelle specifiche e minime «strategie testuali», la sua prosa saggistica appare una lotta contro il buio — della storia, della morale, dell’ingiustizia, del disordine —, una battaglia combattuta con le armi logico-argomentative e dunque linguistiche, anzi più precisamente con le armi della grammatica, della sintassi e soprattutto della tessitura testuale. Bricchi infatti si concentra sugli snodi, sui giunti, sui passaggi (congiunzioni, pronomi, punteggiatura, ripetizioni, anafore, antitesi) posti in opera da uno scrittore che mira all’inclusione, all’assimilazione, alla connessione. A illustrare questa prospettiva, gli esempi sono numerosi: dal doppio gioco di separazione e di legame svolto in alcuni casi dal segno dei due punti agli effetti di pluridiscorsività presenti in saggi dimostrativi in cui Manzoni riesce a far convivere, dentro lo stesso noi polemico, posizioni ideologiche diverse. Il tutto allo scopo di aumentare al massimo grado l’efficacia della propria argomentazione.

Manzoni nel Ritratto di Francesco Hayez
Manzoni nel Ritratto di Francesco Hayez

Tra dialogo e assoluto riserbo oscilla il modo di procedere di Manzoni. È quanto si desume dal recente libro di Giulia Raboni (Come lavorava Manzoni, Carocci), prima proposta (con il volume di Paola Italia su Gadda) di una collana che intende entrare dentro i laboratori dei grandi scrittori con gli strumenti della filologia d’autore che studia il percorso delle varianti da redazione a redazione. Non solo il romanzo è già molto studiato da questo punto di vista, ma anche le altre opere manzoniane, poesie e tragedie comprese. Eppure parecchio rimane da fare, a cominciare dalla catalogazione (digitale?) delle carte il cui nucleo centrale giace alla Braidense, consegnato dagli eredi, ma che in parte si trovano disperse. Manzoni lavora in tensione tra l’obiettivo etico (orientato in senso evangelico dopo la conversione) e la ricerca sperimentale degli strumenti di stile e di forma con cui conseguire quell’obiettivo. Anche Giulia Raboni sottolinea come il tratto comune delle opere di Manzoni sia quella «retorica intimamente dialogica nella quale si può dire si placano e consumano nella conquista di una apparente semplicità le antitesi più profonde della sua psicologia e della sua formazione culturale». Niente più dell’ossessione del confronto, con se stesso e con gli altri (amici e autori vicini e lontani), produce insoddisfazione, correzioni, rifacimenti, scartafacci e varianti.

«Come lavorava Manzoni di Giulia Raboni», edito da Carocci (pagine 141, euro 12)
«Come lavorava Manzoni di Giulia Raboni», edito da Carocci (pagine 141, euro 12)

L’aspetto più affascinante (anche per il filologo), nel modo di lavorare di Manzoni, è il suo farsi nel momento stesso in cui la scrittura si compone: non esistono scalette, schemi, tracce di dialoghi o di spunti; esistono invece, oltre alle riflessioni teoriche preliminari o contemporanee consegnate anche alle lettere agli amici, le trascrizioni di documenti, dati, fonti. Un modo opposto rispetto a quello condotto da Leopardi, il quale, fa notare Raboni, si muove dalla sensazione all’astrazione «azzerando il più possibile il processo meditativo e razionale». Ne deriva, in Manzoni, un andamento a singhiozzo delle stesure, in cui gli approfondimenti e i ripensamenti, ricostruibili per lo più grazie agli epistolari, si intrecciano con la scrittura e ne determinano le svolte, i cambiamenti, gli abbandoni provvisori, le revisioni, le contraddizioni, i «punti di crisi», dando luogo a carte che sovrappongono magmaticamente momenti diversi di rielaborazione: percorsi accidentati che mettono a dura prova l’intelligenza dello studioso. Ciò vale non solo per le diverse fasi del romanzo, dal Fermo e Lucia agli Sposi promessi alla prima edizione (1827) e infine alla cosiddetta Quarantana seguita al famoso risciacquo in Arno: con ulteriori complicazioni dovute agli obblighi della censura, alla circolazione di manoscritti non sempre autorizzata, al lavoro imperfetto degli amanuensi, alle ostinate riletture d’autore sulle bozze, alla diffusione di stampe pirata. Senza dimenticare che il passaggio dall’una all’altra fase di elaborazione comporta un nuovo movimento del pensiero, dello stile, della lingua, come accade, per esempio, nei vari passaggi del Conte di Carmagnola, concepito in prospettiva «familiar-popolare» e riscritto in chiave militare.

«Grammatica del buio», volume pubblicato dal Centro Nazionale Studi Manzoniani (pagine 135, euro 20)
«Grammatica del buio», volume pubblicato dal Centro Nazionale Studi Manzoniani (pagine 135, euro 20)

I capitoli centrali del libro di Giulia Raboni affrontano gli aspetti materiali del lavoro. Se nel momento della progettazione lo scrittore si mostra disponibile alla discussione e allo scambio di vedute, i particolari sulla genesi delle opere rimangono materia di rimuginio intimo di cui poco si saprebbe se non si studiassero le carte. Qualcosa in più sappiamo dell’organizzazione quotidiana in via Morone, dove Alessandro si trasferì nel 1813: lavorava nello studio a pianterreno, di fronte al quale si trovavano le stanze in cui fino al 1837 alloggiò l’amico e sodale Tommaso Grossi. Lo studio guardava sul giardino interno; nei cassetti della scrivania Manzoni conservava i manoscritti delle opere in lavorazione; la scrivania era circondata da librerie e protetta da una nicchia nel muro; il camino, sempre acceso a fuoco alto, era il suo vanto. A Brusuglio, nella villa di campagna, Manzoni lavorava d’estate in un ambiente che riproduceva il più possibile quello cittadino. Difficilmente si recava di persona in biblioteca per le sue ricerche: i libri e i documenti rari che chiedeva in prestito gli venivano per lo più consegnati a casa. Negli ultimi anni di vita, svegliandosi tra le cinque e le sei e provvedendo personalmente a prepararsi la cioccolata per colazione, don Lisander riceveva generosamente (fin troppo?) gli ospiti in salotto anche a costo di rinunciare alla concentrazione del lavoro: che per lo più veniva dislocato nelle ore mattutine prima della passeggiata, cui si dedicava dalle due alle quattro del pomeriggio. La serata, dalle otto alle undici, veniva consacrata agli amici più intimi. Il tema degli eccessivi indugi e della lentezza del procedere è presente nell’epistolario manzoniano e in quello dei familiari: ma va precisato che la possibile pigrizia giovanile diventa con gli anni inattività dovuta a malesseri nervosi che impediscono allo scrittore di portare a termine i lavori intrapresi. All’amico francese Fauriel, Manzoni confessa che dopo quattro o cinque ore di lavoro mattutino passa «il resto della giornata in uno stato di spossatezza tale da impedirgli di pensare». Un’«inerzia totale» che probabilmente coincide con la progettazione e la gestazione silenziosa: nessun blocco della scrittura, che scorreva invece fluida, rapida e naturale, come mostrano gli autografi, forse favorita dalla presa di tabacco cui si allude nel Fermo e Lucia: «a quel modo che uno scrittore, nelle stesse angustie, ricorre alla scatola, piglia una presa in furia, la porta al naso, chiude la scatola, la riapre, e ricomincia lo stesso giuoco».

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