Milano, 25 ottobre 2017 - 20:27

Morte ai cristiani, viva l’Islam
La linea di Graziani in Etiopia

Durante l’impresa coloniale il regime privilegiò i musulmani rispetto ai fedeli
delle Chiese orientali. Il libro dello studioso Alberto Elli (Edizioni Terra Santa)

Un’icona del pittore Nicolò Brancaleon dipinta per la Chiesa etiope Un’icona del pittore Nicolò Brancaleon dipinta per la Chiesa etiope
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«Se incontri un serpente puoi pure lasciarlo passare, se incontri un Amhara schiacciagli la testa». Il viceré d’Etiopia Rodolfo Graziani lo suggerisce al colonnello Giuseppe Malta, inviato nell’area di Jimma a dare una lezione agli ortodossi etiopi. È un proverbio arabo, spiega. E lui pensa che, per ingraziarsi le popolazioni islamiche di etnia Oromo, sia «opportuno liquidare senz’altro tutti gli Amhara» cristiani che «le colonne incontrino sulla strada perché l’opera di persuasione su di essi sarà sempre sterile». È il novembre del 1936. Mancano tre mesi alle bombe di due guerriglieri eritrei che il 19 febbraio successivo, ad Addis Abeba, gli lasceranno nel corpo 350 schegge e lo spingeranno a scatenare per rappresaglia una carneficina con migliaia di morti. Ma tra gli inquieti cristiani etiopi e gli islamici il maresciallo ha già chiaro da che parte stare.

«Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia» (Edizioni Terra Santa, pagine 2.124, euro 90)
«Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia» (Edizioni Terra Santa, pagine 2.124, euro 90)

Lo ricorda lo storico Alberto Elli che, dopo aver firmato una Storia della Chiesa copta in tre volumi, presenta oggi a Roma la Storia della Chiesa ortodossa Tawahedo d’Etiopia (Edizioni Terra Santa). Un lavoro monumentale (2.124 pagine!) e ricchissimo di annotazioni, episodi, citazioni, dettagli. Da Strabone che spiega come l’intera parte meridionale del mondo è chiamata anticamente «la terra degli Etiopi», alla leggenda della Madonna che con la Sacra famiglia, dopo la fuga in Egitto, sarebbe scesa fino al lago Tana, dalla comparsa nel I secolo del primo cristiano («un eunuco funzionario di Candace, regina d’Etiopia») all’arrivo di san Frumenzio, il fondatore nel III secolo della Chiesa etiope legata a lungo a quella egiziana.

 Rodolfo Graziani (1882-1955)
Rodolfo Graziani (1882-1955)

Una storia affascinante, dall’incontro della regina di Saba con Salomone alle guerre del negùs Amda Seyon I («schiavo della croce») contro gli islamici, dalla venuta del pittore veneziano Nicolò Brancaleon, che a cavallo tra il Quattrocento e il Cinquecento introdusse nell’iconografia locale san Giorgio e il drago, fino al ritorno di Hailé Selassié, che ordinò agli etiopi di non vendicarsi sugli italiani per le atrocità subite: «In modo particolare vi raccomando di rispettare la vita dei bambini, delle donne e dei vecchi. Non saccheggiate i beni altrui, anche se appartengono al nemico. Non bruciate case…». Su tutto però spicca dolorosamente, per noi, quella scellerata scelta contro i cristiani etiopi.

Già durante la guerra 1935-36, spiega Elli, «la politica italiana aveva favorito i musulmani, che videro nell’invasione fascista un’occasione di riscatto dal giogo degli Amhara cristiani. Interi battaglioni di musulmani Oromo diedero un notevole contributo alla vittoria italiana». E anche se le nostre autorità insistevano nel dire «che tutte le religioni erano trattate in maniera imparziale, in effetti questa pretesa eguaglianza giuridica delle varie fedi rimase sulla carta e le diverse comunità religiose furono trattate in base all’appoggio che avevano offerto o negato alla conquista italiana».

Avete presenti le barricate di questi ultimi anni alla voce di una nuova moschea? I maiali portati a far la pipì sul posto, le ruspe pronte a entrare in azione, le piazze gonfie di odio, gli striscioni «no minareti»? «L’11 ottobre 1936 Graziani incontrò una folta adunanza di musulmani, comunicando che presto si sarebbe dato inizio alla costruzione di una nuova moschea e di scuole e centri culturali islamici, non solo in Addis Abeba, ma anche in tutti i territori dell’Impero con forte densità di popolazione musulmana».

«Nonostante il suo triste passato in Libia, dove si era guadagnato la reputazione di comandante militare duro e crudele, Graziani giunse a dichiarare di aver imparato a conoscere e apprezzare la “razza” araba durante i quattordici anni trascorsi in Libia» e destinò Harar, «città sacra dei musulmani d’Etiopia, a divenire un grande centro per lo sviluppo degli studi sulla civiltà islamica e sul Corano».

Dice tutto la raccomandazione emanata dopo una visita ad Hararge, a est di Addis Abeba: «Perseguire sempre più decisamente politica musulmana mettendo gradatamente fuori causa et nelle condizioni di andarsene spontaneamente tutti elementi abissini ancora rimasti nel territorio». Una sorta di pulizia etnica. «Spontanea». Magari affidata ai guerrieri Galla, lanciati «alla distruzione dei loro atavici nemici». Non meno chiara è la lettera al generale Pietro Maletti dei primi d’aprile 1937. Dove, liquidati i cristiani copti come «infidi», il viceré assicura: «Altra cosa sono i mussulmani che debbono considerarsi di sicura fede in tutto Impero». Insomma: «I mussulmani in tutto Impero debbono rappresentare nostra riserva di fronte qualsiasi movimento insurrezionale dello elemento copto. (…) Occorre perciò fin da ora curare l’elemento mussulmano et poi, se proprio occorra, impiegarlo anche in situazione attuale costituendo bande et battaglioni di sicuro rendimento».

Si sentiva le spalle coperte, quel macellaio che ordinò («Feci tremare le viscere di tutto il clero») la mattanza di tutti i preti e tutti i diaconi e perfino diversi ragazzini seminaristi di dieci o undici anni del convento di Debra Libanos. Uno dei cuori pulsanti della Chiesa ortodossa. Mattanza affidata agli ascari islamici e su tutti, parole sue, ai «feroci eviratori della banda Mohamed Sultan».

Se le sentiva coperte dal Duce, che nel marzo 1937, nei dintorni di Tripoli, sollevò al cielo «la spada dell’Islam» intarsiata d’oro che gli era stata data dal capo di un contingente berbero (anche se in realtà era fatta in Toscana, come raccontano Gian Marco Walch e Giancarlo Mazzuca in Mussolini e i musulmani) e tuonò: «L’Italia fascista intende assicurare alle popolazioni musulmane della Libia e dell’Etiopia la pace, la giustizia, il benessere, il rispetto alle leggi del Profeta e vuole inoltre dimostrare la sua simpatia all’Islam e ai Musulmani del mondo intero».

E se le sentiva coperte addirittura dalla Chiesa italiana, se è vero, come ricorda Elli, che «Gaetano Salvemini elencò puntigliosamente i nomi e gli atti di ottantasette vescovi e arcivescovi che, “affetti da epizooica fascista”, avevano esaltato la guerra d’Africa». Fino a parlare, come il cardinale Alfredo Ildefonso Schuster il 26 febbraio 1937, di legioni italiane che «rivendicano l’Etiopia alla civiltà, e bandendone la schiavitù e la barbarie vogliono assicurare a quei popoli e all’intiero civile consorzio il duplice vantaggio della cultura imperiale e della Fede cattolica, nella comune cittadinanza romana». Per non dire del vescovo di Oristano Giorgio Maria Del Rio, che straparlava di portare tra le «infime» popolazioni abissine «la croce di Gesù Cristo...»

Una brutta storia. Che davanti alle stupende chiese rupestri etiopi traboccanti di Madonne e Annunciazioni, Gesù in croce e Arcangeli, non dobbiamo dimenticare. Mai.

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