19 febbraio 2018 - 21:39

Morto Max Desfor, il fotografo
che raccontò la guerra di Corea

Scomparso a 104 anni, nel 1951 vinse il Pulitzer per lo scatto che mostrava
centinaia di persone in fuga da Pyongyang su un ponte bombardato

di STEFANO BUCCI

 La foto che valse a Max Desfor il Pulitzer nel 1951: centinaia di persone in fuga sul ponte sul Taedong, durante la guerra di Corea (Ap / Max Desfor) La foto che valse a Max Desfor il Pulitzer nel 1951: centinaia di persone in fuga sul ponte sul Taedong, durante la guerra di Corea (Ap / Max Desfor)
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C’è un’immagine che più di ogni altra ha giustamente fatto diventare l’americano Max Desfor, morto a 104 anni nella sua casa a Silver Spring in Maryland dove viveva da quando era andato in pensione nel 1978, uno dei più famosi fotografi di guerra del Novecento. Con quell’immagine Desfor aveva vinto il Pulitzer nel 1951 perché, secondo la giuria, «aveva tutte le qualità che distinguono un’immagine di news: visione, sprezzo dell’incolumità personale, interesse verso l’umanità e la capacità di far raccontare l’intera storia alla macchina fotografica».

Max Desfor (1913-2018)
Max Desfor (1913-2018)

Quella foto Desfor l’aveva scattata nel 1950 durante la guerra di Corea: all’epoca viveva a Roma, ma si era subito offerto volontario «per raccontare l’avanzata e il ritiro dei soldati americani». Davanti a un ponte sul fiume Taedong, bombardato e semidistrutto, era incappato in centinaia di persone che scappavano da Pyongyang e dalle città vicine. «Una scena indicibile. Tutta questa gente — avrebbe raccontato più tardi — che letteralmente strisciava sulle assi rotte del ponte. Erano all’esterno, all’interno, dentro, sotto, e riuscivano a malapena a sfuggire all’acqua gelata».

Desfor era nato a New York, nel Bronx, l’8 novembre del 1913, ed era entrato a lavorare per l’agenzia giornalistica Associated Press nel 1933. Prima della Corea aveva già raccontato con le sue immagini altri conflitti, a partire dalla Seconda guerra mondiale: l’equipaggio dell’«Enola Gay» dopo che aveva sganciato la bomba atomica su Hiroshima; i marines nella baia di Tokyo quando il Giappone si arrese; le Filippine; l’India, dove aveva fotografato il Mahatma Gandhi, il suo assassinio il 30 gennaio 1948 e il suo funerale.

(Foto Max Desfor / Ap) (Foto Max Desfor / Ap)

Nel 1968 Desfor era diventato responsabile dell’area asiatica, ruolo che ricoprì fino alla pensione. Ma nella sua storia c’è un’altra immagine celebre, anch’essa scattata in Corea: mostra in primo piano la punta delle dita di due mani che spuntano dalla neve, mani diventate blu per il freddo, mani legate ai polsi che appartenevano a uno dei tanti civili fatti prigionieri e uccisi durante la guerra, abbandonati nei campi e ricoperti dalla neve. «Più tardi chiamai quella foto Futility (futilità, ndr), perché è sempre stato così, ho sempre pensato che sono i civili a trovarsi in mezzo, quant’è inutile la guerra per i civili, i civili innocenti. E la foto incarna tutto questo». Proprio come quella scattata davanti a un ponte sul fiume Taedong.

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