9 gennaio 2018 - 21:25

«Malanottata» di Giuseppe Di Piazza
Bocca di rosa abita a Palermo

In uscita per HarperCollins, il noir del giornalista e scrittore ci riporta agli anni Ottanta
per raccontare una vicenda che trae spunto da un delitto realmente accaduto

Il mercato della Vucciria a Palermo, città che fa da sfondo alla morte della giovane Veruska (foto Uliano Lucas) Il mercato della Vucciria a Palermo, città che fa da sfondo alla morte della giovane Veruska (foto Uliano Lucas)
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Veruska (e non Veruschka, come la famosa modella) è una ragazza venuta via da Praga per cercare fortuna in Italia. Siamo a metà anni Ottanta e la fortuna, per lei, ha un nome e un cognome, si chiama Raffaella Carrà e balla il Tuca Tuca. Veruska è stanca del socialismo reale (e anche di quello irreale) e pensa che il capitalismo possa essere generoso con lei, magari trasformandola in una soubrette della Radiotelevisione italiana.

«Malanottata» (HarperCollins, pagine 284, euro 17)
«Malanottata» (HarperCollins, pagine 284, euro 17)

Intanto, a Palermo, dove fa l’entraîneuse, Veruska ha trasformato i passi e le figure del Tuca Tuca in un preliminare sessuale ed è diventata molto popolare tra la danarosa clientela del night in cui lavora. Nella lingua del posto è ormai chiaro chi è la ragazza cecoslovacca: «È una buttana di lusso. La più buttana più di lusso che c’è a Palermo». E capita alle buttane, di lusso o anche più andanti, di finire male.

Il cadavere di Veruska (che era bella come la Eva di Dürer, però in minigonna, come diceva un suo estimatore) viene ritrovato devastato dall’acido vicino al posto dove, secondo la via crucis dei morti ammazzati palermitani, si persero le tracce di Mauro De Mauro, il giornalista dell’«Ora» sparito nel nulla.

Giuseppe Di Piazza, 59 anni
Giuseppe Di Piazza, 59 anni

Tra i primi ad arrivare sul luogo del delitto è un biondino, come venivano detti nei quotidiani del sud i ragazzi di bottega, quelli senza contratto in attesa dell’occasione buona per diventare giornalisti veri. Si chiama Leo, ma in redazione è più conosciuto come Occhi di sonno. Dorme poco. Un po’ per colpa di Patti Smith, la sua cantante (pardon, poetessa) preferita e del verso della canzone che dice: «Because the night belongs to lovers». Un po’ perché deve alzarsi presto per andare a lavorare (il suo è un giornale che esce di pomeriggio). Leo capisce subito che il caso Veruska è il suo caso e che le sue notti bianche sono destinate ad aumentare e non più perché la notte appartiene a chi ama.

Giuseppe Di Piazza viene dalla vera cronaca, prima quella della Palermo mafiosa anni Ottanta, dove c’erano più camere della morte che nelle tonnare dell’intera isola, e poi quella patinata, post-moraviana, ma non per questo meno feroce (i delitti di via Poma e dell’Olgiata), della Roma anni Novanta. Alla prima stagione appartiene questo suo romanzo noir (Malanottata, edito da HarperCollins), quando anche Di Piazza era un biondino. Non è quindi soltanto un giallo, ma l’autobiografia di una giovinezza palermitana (e di un mestiere, quello giornalistico, che non sarà mai più quello che fu).

Come Don Giovanni aggiornava il catalogo delle sue amanti, Leo, il biondino protagonista di Malanottata, aggiorna il catalogo degli assassinati nel capoluogo siciliano («a marzo erano già quarantuno»), e si aggira, in cerca di soffiate sull’esito delle autopsie, nei meandri del Pio Ospedale Camilliano e Fatebenefratelli, che era all’epoca un buen retiro della mafia (tanto che lo avevano ribattezzato Fatebenepicciotti). In quell’ospedale, così come in tutta Palermo, gli estremi si toccano, il dolore e il piacere, il dolce e l’amaro: accanto al pronto soccorso, per dire, sorge il bar ricercatissimo del nosocomio che vanta i migliori croissant della città. Sangue e crema.

Anche il caffè che si beve (e a un cronista tocca buttarne giù molti perché propedeutici alle chiacchierate con persone informate dei fatti) sembra esploso da un colpo di pistola: il contenuto della tazzina (miscela preferibile quella della storica torrefazione Stagnitta di Discesa dei Giudici) è «un cazzotto alle pareti dello stomaco, dove giungeva come se fosse stata sparata, una pallottola di crema nera, densa e dolciastra».

Un passo dopo l’altro, un delitto dopo l’altro, una cabina telefonica dopo l’altra, un gettone telefonico dopo l’altro (allora non c’erano i cellulari e il telefono uno doveva procurarselo strada facendo), il Biondino ricostruisce la vita e la morte di Veruska e il suo sogno di una primavera personale dopo il fallimento, patito dalla generazione dei suoi genitori, della primavera collettiva predicata da Dubcek.

Il mestiere lo interpretava alla sua maniera Veruska. Un po’ come Bocca di rosa, la protagonista della canzone di De André che evitava di farlo per noia o per professione, Veruska ci metteva, a volte, una passione speciale. La sua morte ha, infatti, lasciato alcuni vedovi inconsolabili, clienti affezionati e perdutamente innamorati. Uno di loro è un barone siciliano che vive in un contesto ancora gattopardesco, e sa (come lo sapeva il grande Tomasi di Lampedusa) che il tempo in Sicilia è pura convenzione. Testimonianza vivente del credo cronologico del barone bohémien è la fedele domestica: «Comparve una cameriera settantenne in grembiule rigato e crestina. “Ninetta, per favore, prepara una bella caffettiera”».

Dopo aver bevuto il caffè di Ninetta, il Barone troverà la forza per confessare al giornalista quanto gli sia dolorosa e difficile l’elaborazione del lutto per la morte di Veruska. E il giornalista capirà che per comprendere il destino di Veruska non è importante il nome da modella, ma il suo cognome (Nemecek), che è lo stesso del più famoso dei ragazzi della via Pál, la vittima sacrificale, l’innocente che paga le colpe degli altri.

Lo spunto di questa vicenda di sogni infranti, di questo romanzo di (in)formazione, è un fatto vero dei primi anni Settanta. Lo raccontò a Di Piazza Pietro Grasso quando era procuratore nazionale antimafia. Un delitto atipico di Cosa Nostra che ambiva (un’ambizione feroce) a tingersi di colori romantici. Di Piazza l’ha riarrangiato con cadenze d’inganno, l’ha riempito di suggestioni e l’ha affidato a personaggi che non sarebbero spiaciuti a Sciascia, come il capo della Mobile Gualtieri, torinese e juventino, che ha due massime guida (più siciliane che piemontesi) nelle indagini e nella vita. La prima è «Io dico e poi nego, ricordatelo». La seconda: «Bugie mai, la verità non sempre».

Questo bel romanzo, che ha quarti di nobiltà e d’ignobiltà, baci d’amore e incaprettamenti, incanti e infamità equamente distribuiti, è una classica storia palermitana. E finisce d’aprile, il mese più crudele, come dice il poeta. Ma che, «al trentottesimo parallelo nord, non è poi così tanto crudele». Ed è questa l’unica consolazione che il romanzo lascia al lettore. Soltanto meteorologica, s’intende.

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