Milano, 30 ottobre 2017 - 11:10

Borsa, anche 80 milioni per quotarsi Ma il grosso va alle banche d’affari

Tanto ha speso Pirelli, per le più piccole si scende a 300-700 mila euro. Confermata nella manovra la dote fino a 30 milioni per le Pmi che vogliono andare sul listino. Cipolletta: «Fra gli ostacoli, la difficoltà degli imprenditori italiani a stare in minoranza»

Raffaele Jerusalmi (Borsa Italiana) e, a destra, Marcio Tronchetti Provera il primo giorno di quotazione di Pirelli (4 ottobre) Raffaele Jerusalmi (Borsa Italiana) e, a destra, Marcio Tronchetti Provera il primo giorno di quotazione di Pirelli (4 ottobre)
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Nella manovra finanziaria presentata oggi, lunedì 30 ottobre, al Senato è stata confermata, secondo fonti del Tesoro, la dote fino a 30 milioni per le aziende che avviano il processo di quotazione in Borsa (e lo concludono) nel 2018. Un sostegno tramite credito d’imposta sulle spese di consulenza sostenute per questo scopo fino al 2020 (con un tetto di 500 mila euro). È un modo per allargare Piazza Affari e rilanciare l’economia. Ma quanto costa andare in Borsa? Dipende da quanto si è grandi: fra i 300 mila euro e gli 80 milioni, negli ultimi casi. È una spesa sostenibile? Sì per i big, meno per le Pmi che pure dovrebbero allargare il perimetro di Piazza Affari. La commissione dovuta a Borsa Italiana, in senso stretto, incide poco. Pesano molto di più le spese per le banche e gli avvocati, i revisori, i consulenti finanziari, insomma tutto il lavoro che sta dietro una quotazione. Vediamo tre casi: grande, medio e piccolo. Un gruppo come Pirelli, rivela il prospetto informativo, ha da sborsare un’ottantina di milioni per il ritorno in Borsa (da 73,5 a un massimo di 80,5 milioni: dipenderà anche dall’esito dell’esercizio della greenshoe). Non poco, benché su una capitalizzazione che ha toccato i 6,5 miliardi. Di questi soldi soltanto mezzo milione va a Borsa Italiana. Il grosso è nelle spese per il processo di quotazione, pubblicità compresa: 22 milioni. E soprattutto nei soldi alle banche, quelle del consorzio per l’offerta pubblica e il collocamento (il 2,25% massimo sulla raccolta, fino a oltre 50 milioni, come indicato nel prospetto).

Il caso Gima TT

Alberto Vacchi (Gima TT)
Alberto Vacchi (Gima TT)

Una matricola recente media come la Gima TT di Alberto Vacchi — che fabbrica macchine hi-tech per impacchettare, fra l’altro, le sigarette — ha pagato invece 165 mila euro a Borsa Italiana. Più circa 17 milioni fra costi fissi a terzi (2,2 milioni) e onorari delle banche (14,8 milioni). Cifra notevole, ma Gima TT è stata valorizzata sul listino oltre un miliardo: può permettersi 17 milioni per l’Ipo. Diverso è se si scende di dimensione. La quotazione di una Pmi come Culti sull’Aim, listino delle piccole imprese, può costare da 300 mila a 700 mila euro, di cui solo 20 mila vanno a Piazza Affari (e dal 2015 c’è pure lo sconto a 18 mila euro, se la società capitalizza meno di mezzo milione e fa un aumento di capitale del 30%). Per le nuove quotate, le tariffe di Borsa sono queste infatti: massimo 500 mila euro, minimo 18 mila. Competitive, secondo il gruppo guidato da Raffaele Jerusalmi. E se il mercato tira, è il ragionamento, i costi vengono assorbiti dal valore attribuito alla società. Ma quasi un milione di euro per quotarsi incide su chi ne fattura cinque. Così come pesano i prospetti informativi di centinaia di pagine o i costi legali successivi.

La nuova legge e i freni

La dote fino a 30 milioni per incentivare la quotazione delle Pmi ha dunque un senso. Ma non esaurisce il problema di una Borsa ancora ristretta, anche quest’anno in cui su 22 matricole (14 nel 2016) ben 16 sono andate sull’Aim, il listino delle piccole imprese (trainato ora dai Pir). «Di certo ci sono ostacoli burocratici alla quotazione — dice Innocenzo Cipolletta, presidente di Assonime —, ma anche comportamentali. In Italia si quotano le aziende con il 60% in mano a un proprietario, una famiglia, una holding, banche escluse. Ma la Borsa serve ad attrarre capitali per la crescita, oltre che ad avere vantaggi di reputazione e migliori tassi con le banche. Le aziende devono accettare di diluirsi nel capitale».

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