31 gennaio 2018 - 09:32

Mister Cartier, il ritratto di Rupert
«Compro Italia, per volare sul web»

L’imprenditore sudafricano che ha fondato Richemont, il colosso della gioielleria, ha messo sul piatto 2,7 miliardi per assicurarsi Ynap. E ne ha altri 5 in cassa da spendere. Il ruolo del figlio Anton

Il fondatore di Richemont Johann Rupert Il fondatore di Richemont Johann Rupert
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Lo hanno soprannominato «Rupert, l’orso». Un po’ per il suo carattere ruvido e riservato; un po’ per l’occhio lungo sui mercati che gli ha permesso, tra l’altro, di individuare con largo anticipo la caduta della Borsa (cioè l’Orso) del 2008. Occhio lungo non solo nella finanza, dato che un anno fa, in una delle rarissime interviste concesse, alla domanda su quali fossero le sue maggiori preoccupazioni per il futuro, rispondeva che «stiamo vivendo un momento di crescente disuguaglianza in molti Paesi. I governi e le banche centrali hanno rotto il patto sociale pur di salvare gli speculatori. Inoltre, milioni di persone perderanno il lavoro a causa della prossima ondata della rivoluzione tecnologica. Tutto questo porterà a più odio, a più antisemitismo e a un aumento di partiti di estrema destra e di estrema sinistra».

La sua ricetta? «L’introduzione di un reddito di base universale», per «dare tempo alle persone di riqualificarsi». Lui è Johann Rupert, imprenditore sudafricano, quarto uomo più ricco dell’Africa e 237esimo al mondo nelle classifiche di Forbes. Una ricchezza nata col padre Anton (miniere e tabacco, oltre i primi investimenti nel lusso) ma che Johann ha moltiplicato fondando Richemont, divenuto in trent’anni — li compirà quest’anno — il terzo gruppo mondiale del lusso, con oltre 10 miliardi di euro di ricavi. Orologi e gioielli di altissima gamma, soprattutto. La sede scelta da Rupert è stata la Svizzera, patria degli orologi migliori al mondo.

I brand Richemont parte con i marchi che Rupert senior aveva già iniziato ad acquistare negli anni Settanta, in particolare Cartier, allora in difficoltà e che è stato riportato al successo. Un portafoglio di maison — così le chiama Johann Rupert — che va da brand di antica tradizione come Vacheron Costantin, Cartier, Purdey, Baume & Mercier, Lange & Sohne, Piaget, Jaeger-LeCoultre, Van Cleef & Arpels e Monblanc, Alfred Dunhill, Officine Panerai fino ai più giovani Robert Dubuis, Peter Millar, Giampiero Bodino. Con qualche incursione nella moda con Chloé e Azzedine Alaia. E adesso Richemont punta all’ecommerce. La scorsa settimana ha annunciato il lancio di un’Opa (Offerta pubblica di acquisto) da 2,7 miliardi di euro per rilevare la totalità delle azioni di Ynap, la piattaforma di vendite online nata dalla fusione tra la Yoox di Federico Marchetti e la Net-à-porter fondata da Natalie Massenet di cui il gruppo svizzero era azionista di controllo. Dopo quell’operazione, Richemont si era ritrovato con il 50% del capitale di Ynap ma con il 25% dei diritti di voto. Negli ultimi mesi si era parlato spesso del destino di questa quota, e molti erano stati i rumors di un interessamento di Alibaba.

Invece, Richemont non solo non ha venduto ma, al contrario, ha rilanciato, riconoscendo alla società guidata Federico Marchetti un premio di quasi il 26% rispetto alle ultime quotazioni. Il valore di Borsa è un elemento da non sottovalutare in questa vicenda. Più di una persona, infatti, sostiene che la bassa valutazione riconosciuta dal mercato a Ynap (viaggiava attorno ai 30 euro prima della mossa di Rupert, che ha offerto 38 euro per azione) abbia agito da acceleratore dell’operazione. Sarà finita qui? Non ci sono voci di alcun genere sul mercato, ma la domanda è naturale visto che Ynap ha una joint venture con Kering, il secondo gruppo del lusso mondiale. E Kering ha, a sua volta, una partnership con Richemont su Cartier negli occhiali. E, ancora: come reagirà Lvmh, primo gruppo mondiale del lusso, che sta facendo investimenti nell’ecommerce ma è ancora agli inizi? Governance Il dato di fatto è che il gruppo svizzero vuole consolidarsi nell’ecommerce.

A settembre è entrato nel consiglio di amministrazione di Richemont il primo dei tre figli di Rupert, Anton, insieme a Nikesh Arora, l’investitore tecnologico che ha lavorato per Google, con l’obiettivo di accelerare lo sviluppo digitale. Il primo atto di un passaggio del testimone in famiglia? Prematuro. Rupert, che pure tempo fa si prese un anno sabbatico, ha dichiarato che non è ancora venuto il momento per lui di ritirarsi. Di Richemont controlla il 51% dei diritti di voto con il 9% delle azioni; nessun altro socio ha quote che superino la soglia del 3% oltre la quale bisogna rivelarsi. È presidente esecutivo e, nella revisione della governance fatta di recente, ha eliminato la figura dell’amministratore delegato sostituendolo con il senior executive committee. Quanto ai manager godono da sempre di forti deleghe, come confermano fonti dirette.

E questo dovrebbe essere una garanzia per Ynap che, se l’Opa andrà a buon fine, sarà tolta dalla Borsa. Federico Marchetti ha assicurato che la società italiana «continuerà a essere gestita come società distinta, garantendo la neutralità della piattaforma per tutti i marchi del lusso» e che «la sede rimarrà in Italia». Nato a Stellendosch, in Sudafrica, dopo gli studi di economia Rupert ha traslocato a New York per lavorare nella finanza. Società come Chase Manhattan e Lazard che gli hanno lasciato quella che, chi ha avuto modo di collaborare con lui, definisce «una grande sensibilità per tutto ciò che accade sul mercato». Ama le strategie che guardano lontano e non si è mostrato preoccupato della flessione dei risultati dello scorso esercizio («abbiamo sempre detto che gli investitori non dovrebbero guardarci su base trimestrale, gestiamo l’azienda con una visione a lungo termine»). Gli piace, invece, avere la cassa rifornita, che lo considera un fattore di libertà (al 31 dicembre 2017 Richemont aveva 5,1 miliardi di dollari di posizione finanziaria netta positiva).

Sui marchi che possiede investe fino a quando non raggiungono i risultati desiderati. E gli avversari gli riconoscono che sa prendere decisioni difficili, come quella di riacquistare e distruggere i propri prodotti in eccesso per evitare che finissero sul mercato parallelo dopo che le misure anticorruzione introdotte in Cina avevano colpito il settore degli orologi. Insomma, tutto bene. Certo, resta un po’ di amarezza per l’ennesima società italiana che viene acquistata da un gruppo straniero. Dimostrazione, da una parte, della creatività del Paese ma, dall’altro, della sua incapacità di costituire un polo alternativo a quelli che, ormai, sono veri giganti. Un sentimento che ha saputo ben esprimere Renzo Rosso, l’imprenditore che per primo ha creduto in Federico Marchetti, diventando socio forte di Yoox e agevolandone così lo sviluppo. «Un’operazione magnifica per l’azienda. Certo sono un po’ dispiaciuto, un’altra bellissima azienda italiana che va in mani straniere». Per Mister Cartier, invece, una nuova sfida.

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