11 marzo 2018 - 23:52

Oggi la direzione del Pd. Orfini: «Niente primarie per il leader»

Oggi la riunione del «parlementino» con il nuovo reggente Maurizio Martina. Le critiche della minoranza si faranno sentire, ma sul governo c’è accordo. Nessuno (tranne Michele Emiliano) vuole sostenere un governo a guida M5S

di Monica Guerzoni

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ROMA Quattro anni dopo la vittoria di Matteo Renzi alle primarie dell’8 dicembre 2013, il Pd prova a voltare pagina. Se la lettera di addio annunciata dal presidente Matteo Orfini confermerà che le dimissioni del leader sconfitto sono immediate e irrevocabili, la lunga era renziana potrà dirsi chiusa (per ora) e comincerà la gestione unitaria sotto la guida del reggente Maurizio Martina. Salvo sorprese Renzi diserterà la riunione del «parlamentino» a porte chiuse e senza streaming, sia per sottrarsi al «processo» sia per evitare una conta su primarie ed elezione del successore: dopo i riposizionamenti degli ultimi giorni i numeri in direzione non sembrano più essere dalla sua parte.

Pd, la sfida della segreteria: sette uomini per una leadership
Gli scenari

Toccherà al vicesegretario Martina mediare, smussare e traghettare un partito tramortito fino all’assemblea nazionale di metà aprile, dove oltre mille delegati (in maggioranza renziani) decideranno se eleggere in quella sede il nuovo leader, oppure se indire le primarie. E sarà sempre il ministro uscente dell’Agricoltura a guidare la delegazione del Pd al Quirinale per le consultazioni, poiché Renzi è orientato a non prendervi parte.

Dopo giorni di tensioni innescate dalla batosta elettorale, i renziani sembrano cercare una tregua. Come dice Ettore Rosato «ci aspettano cinque anni di opposizione, non è il momento di litigare». Ma la minoranza non si fida, teme «giochetti» in assemblea, dove la maggioranza per l’ex premier è schiacciante. Le voci critiche si faranno sentire, Andrea Orlando difficilmente starà zitto dopo il durissimo attacco di Luca Lotti, braccio destro di Renzi. Eppure nel suo giro di telefonate con tutti i «big», da Renzi a Gentiloni, da Franceschini a Orlando, Martina ha garantito una prospettiva di unità e collegialità, che potrebbe concretizzarsi anche in un organismo plurale: uno di quei «caminetti» che fanno venire l’orticaria a Renzi. Sarà un Pd più inclusivo e aperto, ha promesso il reggente, la cui relazione sarà incentrata su una analisi della sconfitta non assolutoria, nella quale però si sprona a non addossare a un uomo solo tutto il peso della débacle: «Non cerchiamo capri espiatori». Un invito all’autocritica che investe tutta la classe dirigente e cerca di preservare il leader sconfitto. «La ricostruzione non può prescindere da Renzi», avverte Matteo Orfini.

Quanto alle strategie per il futuro Martina è convinto che prevarrà la scelta di stare all’opposizione, perché «la responsabilità del governo spetta ai vincitori». Per Orfini obbligare i dem ad allearsi con i 5 stelle è «una cosa contro natura, quasi una sorta di stalking». Intervistato da Lucia Annunziata a 1/2 ora in più il presidente dem non vede le condizioni per assegnare la guida di una delle due Camere a un esponente del Pd e stoppa ogni tentazione dell’ala governativa di scendere a patti con Luigi Di Maio: «Se dovessimo sostenere un governo con i 5 stelle sarebbe la fine del Pd». E un esecutivo del presidente, con tutti dentro? «Vedremo — frena Orfini — Non mi sembra ci sia la disponibilità delle principali forze».

È la posizione dei renziani ma non certo quella di chi, come Zanda, Franceschini e quasi tutti i ministri, guarda a Paolo Gentiloni e al Quirinale e non esclude un governo di scopo. È il punto politico nodale, sul quale la pax che Martina sta faticosamente cercando di costruire potrebbe incrinarsi. E non solo per le aperture di Michele Emiliano. Appoggio esterno al M5S e presidenza della Camera al Pd, è la formula del governatore nel Faccia a Faccia con Giovanni Minoli su La7: «Si danno i voti al M5S e si condividono i punti che sarà possibile condividere. Hanno preso 11 milioni di voti e hanno il diritto di provare a governare». L’altro spigolo da smussare riguarda le modalità di elezione del prossimo segretario. Orfini dice no alle primarie e Rosato conferma che i renziani non le vogliono: «Nessuno le chiede, perché durante una fase di decantazione non si montano i gazebo».

Se la minoranza alzerà i toni per invocare le primarie, i renziani insisteranno con l’idea di scegliere un segretario condiviso in assemblea, dove i numeri sono dalla loro parte. E qui il nome che si fa con più insistenza è quello di Graziano Delrio. Il ministro ha smentito di voler correre per la segreteria, eppure i renziani continuano a invocarlo: per bruciarlo o per averlo presidente dei deputati? Se per miracolo la direzione non finirà con una conta sanguinosa sul documento finale, la battaglia si sposterà in Parlamento. Quando si tratterà di eleggere i capigruppo Renzi farà sentire il suo peso, perché vuole scongiurare intese con i vincitori. Al Senato vorrebbe imporre Dario Parrini o, se costretto a un compromesso, un renziano più morbido come Andrea Marcucci. Alla Camera si parla anche di Roberto Giachetti e di Ettore Rosato, la cui riconferma è gradita a Maria Elena Boschi. Attivismo sospetto per Emiliano, «sorpreso» per le dimissioni di Renzi: «Lui studia una rivincita».

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