Milano, 2 dicembre 2017 - 21:43

Il ministro saudita: «Teheran è una minaccia. Una guerra? Nessuno può escluderla»

Il ministro degli Esteri di Riad Adel al-Jubeir: i nostri arresti come Mani pulite. I diritti umani verranno. Con Israele abbiamo interessi comuni»

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Il mondo di Adel al-Jubeir è in bianco e nero. Da un lato c’è un regime virtuoso, l’Arabia Saudita, che vuole pace nel Grande Medio Oriente, è in prima fila nella lotta al terrorismo, combatte la corruzione interna, apre progressivamente l’arcaica società saudita alla modernità (donne alla guida, cinema, musica) e aiuta i regimi in difficoltà come lo Yemen. Dall’altro c’è l’Iran, «il problema più grande della regione», sponsor del terrore, agente della destabilizzazione dal Libano alla Siria, regime canaglia e doppio per eccellenza, «che cambia a parole ma non nei comportamenti».

Ogni dialogo in questo universo binario è impossibile, secondo il ministro degli Esteri di Riad, in questi giorni a Roma per partecipare ai Med, il forum sul Mediterraneo concluso ieri dal presidente del Consiglio, Paolo Gentiloni. «Non c’è più speranza. È dal 1979 che cerchiamo di ragionare con l’Iran. Tutto ciò che abbiamo ottenuto in cambio è morte e distruzione — ha detto Al-Jubeir al Corriere e ad altri giornali a margine della conferenza —. Assassinano i nostri diplomatici, attaccano le nostre ambasciate e sviluppano cellule terroristiche nel nostro Paese, destabilizzano i nostri alleati, forniscono missili balistici alle milizie houthi in Yemen perché li lancino contro le città saudite».

E anche se una guerra diretta tra le due potenze regionali «non è auspicata da nessuno», nessuno può escluderla. «Penso che tutti vogliano evitare una guerra, perché tutti perdono in guerra. Si fa la guerra per procura, ma dobbiamo respingere gli iraniani, perché per 35 anni nessuno lo ha fatto». Al Jubeir ha negato che sauditi e israeliani abbiano sviluppato contatti, anche in virtù della comune minaccia, ma riconosce che hanno «interessi comuni relativi al pericolo iraniano, all’estremismo e alla Siria». In abiti tradizionali, sbarbato e in perfetto inglese, nel salotto dell’ambasciata, il ministro ha presentato Riad come il poliziotto della regione, consapevole che l’America ha rinunciato a quel ruolo. Sul fronte libanese, ha definito «folli» i sospetti che l’Arabia Saudita abbia fatto pressione sul premier Saad Hariri per farlo dimettere. Al contempo, ha avvertito che, «finché l’Hezbollah non rinuncia alle armi, è da sciocchi pensare che possa esserci equilibrio e calma in Libano».

Il ministro ha difeso le operazioni militari saudite in Yemen, nonostante le critiche mosse dall’Onu a entrambe le parti in conflitto: «Dicono che bombardiamo le scuole e gli ospedali ma non è vero, seguiamo le stesse procedure della Nato… e, se colpiamo obiettivi sbagliati, ce ne assumiamo la responsabilità». La sua ricostruzione della guerra è che «gli houthi hanno fatto un golpe e si sono impadroniti del Paese» e «noi abbiamo risposto alla richiesta di intervenire fattaci dal governo legittimo». «Non è una guerra che volevamo, né che abbiamo iniziato». All’obiezione che una cosa simile hanno fatto gli iraniani, intervenuti in Siria al fianco di un governo alleato, il ministro saudita ha replicato duramente: «Non hanno diritto di stare in un Paese arabo. Se ne stiano in Persia».

Il Paese wahhabita relega invece nel passato le sue responsabilità di appoggio all’estremismo: «Abbiamo affrontato il problema, la nostra politica è di tolleranza zero». Il ministro ha offerto anche un paragone tra la retata anticorruzione contro centinaia di principi e ministri sauditi e Mani Pulite: «In Italia l’avete fatto molti anni fa». Certo le procedure sono diverse: anziché processare i colpevoli, «li abbiamo messi in albergo e diamo loro la scelta di restituire i soldi e andarsene a casa. Crediamo che la maggioranza lo farà. Se li porti tutti in tribunale, ci vorranno anni a processarli». Dagli Stati Uniti il ministro di Riad prende in prestito la narrazione dello sbarco sulla luna: «Kennedy avrebbe potuto spendere tutti quei soldi nelle periferie disagiate d’America, ma scelse di mandare l’uomo sulla Luna perché era un simbolo. Anche noi avremo il nostro sbarco sulla Luna: si chiama Neom City, una città di intelligenza artificiale ed energia pulita. Vogliamo cambiare la psicologia della gente, abbiamo vissuto di rendita e senza responsabilità grazie al petrolio che Dio ci ha dato. Ora vogliamo un’economia sostenibile». I diritti umani? «Se la società si evolve, arrivano con tutto il resto — sostiene il ministro — come il diritto alla guida per le donne».

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