20 dicembre 2017 - 22:36

«Gerusalemme città di pace
ma solo con il dialogo diretto»

Parla il segretario di Stato vaticano: «Gerusalemme è una città unica e sacra per ebrei, cristiani e musulmani. Dovrebbe avere uno statuto speciale che ne faccia una “città aperta”, offra assicurazioni di libertà religiosa per i membri delle tre religioni»

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CITTÀ DEL VATICANO «Vede, ci guardiamo attorno e tante volte questo sguardo, nel nostro tempo, produce in noi una sensazione di impotenza e negatività, quasi di delusione e disperazione. Viene da pensare: è impossibile cambiare questo mondo. Ma noi dobbiamo mantenere ferma la speranza, una speranza che poi diventa impegno». Il cardinale Pietro Parolin, Segretario di Stato vaticano, ha appena inaugurato nella sede del Bambino Gesù di Palidoro, appena fuori Roma, la mostra con un centinaio di disegni che bambini di tutto il mondo hanno inviato al Papa, a Santa Marta. Francesco li ha affidati alla «Civiltà Cattolica». La presidente dell’ospedale, Mariella Enoc, e padre Antonio Spadaro, direttore della rivista dei gesuiti, hanno pensato di selezionarne un centinaio a sostegno di una raccolta fondi (ospedalebambinogesu.it) per accogliere e curare bambini dall’estero. «Sono un dono dei bimbi al Papa e ora possono diventare un dono per altri bambini», dice il cardinale. Il mondo visto attraverso gli occhi dei più piccoli: guerre, migranti, «gli angeli scomparsi in mare» che in un disegno oscillano senza volto, sopra le onde, su altalene appese alle stelle.

Eminenza, ha parlato dell’Avvento come «tempo di attesa e speranza». Non che ci siano grandi motivi di speranza, di questi tempi, no?
«Credo purtroppo ci siano più motivi di preoccupazione, ma la speranza nasce proprio quando c’è preoccupazione. Se le cose andassero bene, non avremmo bisogno di speranza. E questo è proprio il momento di aiutare la speranza a nascere e crescere. Soprattutto da parte della Chiesa, che è depositaria del messaggio del Vangelo».


Parlava di impegno. Lei ha appena incontrato il re di Giordania, ricevuto in Vaticano da Francesco. Subito dopo la decisione di Trump di riconoscere Gerusalemme come capitale di Israele, il presidente palestinese Abu Mazen aveva telefonato al Papa. Che cosa si chiede alla Chiesa? Una mediazione o altro?
«Naturalmente, a livello di diplomazia, la Chiesa può intervenire in situazioni molto concrete. Lo abbiamo fatto, anche nel passato. Non so se ci sarà l’opportunità, in questo caso, dipende molto dalle circostanze, dagli attori che sono coinvolti e così via. Però io credo che alla Chiesa si chieda soprattutto di continuare a proclamare quelli che sono i grandi valori del Vangelo: la pace, il dialogo come cammino per arrivare alla pace, la fraternità, la solidarietà. Ecco, queste parole bisogna continuare a ripeterle perché rischiano di essere smentite ogni giorno dai fatti. E quindi vanno risvegliate ogni giorno nei cuori della persone. La Chiesa deve fare questo e aiutare in concreto le persone, essere l’ospedale da campo di cui parla il Papa».

È ancora possibile la vostra proposta di uno statuto internazionale per Gerusalemme?
«Che sia possibile adesso non saprei. Certo, le decisioni che sono state prese rendono oggettivamente più difficile percorrere questa strada. Ma credo che la proposta della Santa Sede rimanga valida».

Cosa significherebbe, in sostanza?
«Gerusalemme è una città unica e sacra per ebrei, cristiani e musulmani. Dovrebbe avere uno statuto speciale che ne faccia una “città aperta”, offra assicurazioni di libertà religiosa per i membri delle tre religioni che condividono i luoghi santi e permetta l’accesso ai pellegrini. Il cuore della proposta, quindi, è quello di uno statuto speciale garantito internazionalmente».

Si dice che l’iniziativa del presidente Usa abbia reso più difficile la pace. Ma non è che prima ci fossero grandi prospettive….
«Infatti la ragione che è stata data è proprio quella: buttare il sasso nello stagno in modo che le acque comincino di nuovo ad agitarsi, perché erano completamente ferme. Io però mi domando se la decisione vada in quel senso. Almeno lo pongo come interrogativo. Lo ripetiamo da sempre e lo ripeto qui: l’unica soluzione è il dialogo diretto tra le due parti per poter arrivare ad un consenso intorno ad alcune proposte. Questa è l’unica strada. Le decisioni unilaterali, a mio parere, non sono utili per andare nella direzione della pace».

Ne ha parlato con Abdallah II?
«Sì, con il re di Giordania ne abbiamo parlato proprio in questo senso. E mi pare ci sia una coincidenza di fondo sulla soluzione dei due Stati e la necessità di un dialogo diretto tra israeliani e palestinesi come via per arrivare alla pace».

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