28 dicembre 2017 - 21:32

Weah presidente della Liberia, quando a Milanello diceva: «Conosco la fame, non farò mai politica»

Ricordi dell’ex centravanti del Milan e unico africano premiato con il «Pallone d’oro», eletto ora presidente della Liberia

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«Dormivamo in 14 in una stanza. La nonna nel letto e noi tredici fratelli sul pavimento. Mio padre William e mia madre By si erano separati e se n’erano andati lontani, la nonna aveva radunato tutta la famiglia in una stanza e affittava il resto della casa per qualche soldo. Mangiavamo riso. Riso e basta. Avevo sempre fame».

Così raccontò la sua vita, un po’ di anni fa, George Weah, l’ex centravanti del Milan e unico africano premiato con il «Pallone d’oro», eletto ora presidente della Liberia. Eravamo a Milanello, alcuni compagni di squadra giocavano a biliardo, altri a carte, altri leggevano sui divani cronache di calcio. «Sempre calcio, calcio, calcio». Non gli piaceva: «Amo il calcio, gli devo tutto. Ma se posso parlo di altre cose. Non capisco chi legge solo i giornali sportivi: chi gioca, chi no, chi marca, chi segna... Non è questa la vita». Chi ricorda il leggendario goal «coast to coast» di un Milan-Verona, visto e rivisto su YouTube, sa quanto fosse un centravanti fantastico. Al fischio finale dell’arbitro, però, staccava. E tornavano a galla i ricordi dei morti, troppi, della guerra civile. «Parenti, amici, cugini, ragazzi con cui sono cresciuto. In questi anni a Monaco, a Parigi, a Milano ho cercato di non essere sempre lì con la testa. Sennò non potrei giocare. Invece devo giocare bene. E’ il mio lavoro. Non ci devo pensare. Per 90 minuti c’è solo il pallone. Ma appena finisce la partita torno con la testa lì». In Liberia.

Disse che no, non sapeva fino a che punto ci fossero responsabilità europee nelle tragedie della sua terra: «So che il giorno in cui i Paesi che producono armi smetteranno di venderle le guerre in Africa cesseranno. Finché ci saranno trafficanti non ci sarà mai la pace in Africa». Spiegò di venire da una famiglia cristiana ma di essersi convertito all’Islam: «Allah per me è tutto. Prego sempre. Cinque volte al giorno. Se cammino per strada prego. Se gioco prego. Se sono costretto a non rispettare il Ramadan lo recupero appena posso. Cerco di essere un buon musulmano. Ho fatto anche la scuola coranica». Giurò però che gli era rimasto «un grande rispetto per i “crétiennes”, i cristiani. Quello che conta è che l’Islam è buono “per me”. Capito? Buono per me. E per il popolo nero». E i cristiani macellati in quegli anni in Sudan? «Quello non è Islam: è fanatismo. Il Corano non dice di uccidere. Non dice di odiare. Bisogna rispettare chi la pensa in modo diverso».

Guadagnava oltre tre miliardi di lire l’anno. Una cifra enorme, allora. Dicevano che con un terzo dei soldi aiutasse un’infinità di persone. «Quanta gente conta su di me? Tanti. I miei fratelli. Le loro famiglie. Tanti parenti. I bambini della scuola elementare dove ho studiato. Sono duecento e io chiedo: quanto costa farli studiare? Mi dicono: costa così e così. E io pago». Si dava da fare contro il razzismo. E per l’integrazione: «Gli africani vengono qui per lavorare. Non è giusto trattarli così». Teorizzava le frontiere aperte: «Per tanto tempo i bianchi sono venuti in Africa in cerca di oro, diamanti, minerali... Adesso sono gli africani a venire qua in cerca di lavoro. È normale. Il mondo è di tutti». S’era fatto in Liberia una villa con sedici camere, possedeva centinaia di scarpe («per anni sono andato scalzo») e aveva investito in immobili dall’Africa agli States dove si sarebbe laureato in Gestione d’impresa alla DeVry University. Ma dormiva, anche negli hotel più lussuosi, sul pavimento. «Mi stendo una coperta e dormo lì, per terra. Son fatto così».

Dentro, si sentiva ancora il ragazzino tirato su da nonna Emma in una bidonville a Gibraltar, paludi e zanzare, vicino al porto di Monrovia: «Son cresciuto per strada. Mi arrangiavo con mille lavoretti, giocavo a carte, fumavo marijuana... Non ho mai rubato. Ma se avessi dovuto farlo per fame l’avrei fatto». Brutta cosa, la fame: «Non lascio mai un boccone sul piatto. Se avanzo qualche cosa a pranzo la tengo da parte e la mangio la sera. Se non la mangio la sera la tengo per il giorno dopo». Diceva di non aver mai votato: «Non voglio far politica. Anche perché l’Africa (tutta, non solo la Liberia) non ha ancora capito cos’è la democrazia. La gente della Liberia mi vuole bene, sono un simbolo di unità e voglio stare al di sopra delle fazioni».

Ecco il punto: dopo aver perso due volte, il «nuovo» Weah ha buttato giù due bocconi che un tempo gli sarebbero stati indigesti. Ha scelto come «vice» Jewel Howard Taylor, l’ex moglie del dittatore Charles Taylor, «il boia di Monrovia» che ordinò spaventose mattanze ed è stato condannato a 50 anni di galera dal tribunale dell’Aja per crimini contro l’umanità. E non ha rifiutato al ballottaggio l’appoggio di Prince Johnson, il «signore della guerra» noto per aver rovesciato nel ’90 il presidente golpista Samuel Doe e aver ordinato ai suoi uomini, mentre tracannava birra, di tagliar le orecchie al prigioniero prima di ammazzarlo. Ferocia belluina. Sotto gli occhi d’una cinepresa. Il video è su YouTube. E ti chiedi: è ancora il George d’una volta? Il nipote di nonna Emma che sognava di riscattare la sua terra ricca di diamanti ma pazza di fame? Lo dirà la storia. Ma un filo di inquietudine…

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