Milano, 12 novembre 2017 - 20:46

«Mezzo cavallo», «tu sei un budino»
Quando la politica diventa insulto

Da Churchill a Roosevelt la storia è piena di battute sui nemici. L’elemento di novità introdotto da Trump è che passa all’attacco e fa i commenti in pubblico

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La vera novità del tweet nel quale il presidente americano ironizza sulla statura (Trump è alto 1,88) e sul peso (qui Trump non pare nella posizione ideale per criticare gli altri) del nordcoreano Kim Jong-un non sta nell’insulto in sé e per sé ma nella posta diplomatica in gioco — una possibile escalation atomica. Perché se c’è una regola unanimemente rispettata dai leader di potenze nucleari, dal 1945 a oggi, è la cautela assoluta.

La Guerra fredda ha avuto pagine complesse e l’umanità è arrivata almeno una volta — ottobre 1962 — sull’orlo della catastrofe, ma rileggendo la storia dei tredici giorni della crisi dei missili a Cuba si vede come l’ultima cosa che Kennedy e Krusciov avessero in mente fosse quella di scambiarsi commenti personali poco gradevoli.

La storia, lunghissima, degli insulti politici, si divide generalmente in due: gli insulti pronunciati in privato e poi «filtrati» in pubblico, magari decenni più tardi, e le più aggressive prese di posizione pubbliche. Per una serie di motivi, la prima categoria è quella che racchiude le battute più celebri e, francamente, più spiritose. Il primo ministro francese Georges Clemenceau, ormai molto anziano e annoiato dalla logorrea del britannico David Lloyd George durante i colloqui che portarono al trattato di Versailles (1919), lasciò ai posteri il celebre «vorrei poter pisciare nel modo in cui quell’uomo riesce a parlare». Dean Acheson, uno dei padre nobili della moderna politica estera americana, Segretario di Stato per Harry Truman dal ’49 al ’53 e uno degli architetti della Guerra fredda, riassunse la sua mancanza di stima per il presidente Lyndon Johnson in una lettera alla figlia nella quale lo definì «un vero centauro, parte uomo, e parte culo di cavallo», definizione rimasta famosa quasi quanto quella di Johnson su Gerald Ford, «un brav’uomo che ha giocato troppo a football senza casco» (Ford era stato un fortissimo giocatore al college). Il padre della Patria John Adams, primo vicepresidente della storia degli Usa e secondo presidente, nutriva per Alexander Hamilton una tale antipatia da definirlo, in tre lettere diverse, «cialtrone figlio bastardo d’un malfattore scozzese» (era nato fuori dal matrimonio). Il coltissimo figlio di Adams, John Quincy Adams, il sesto presidente, nutriva per un altro presidente, Andrew Jackson, un tale disprezzo da definirlo «un barbaro a malapena in grado di firmare con il proprio nome». Del presidente McKinley, Theodore Roosevelt diceva semplicemente che «ha la spina dorsale d’un budino al cioccolato».

Ma quando si parla di humour si pensa all’Inghilterra, e Winston Churchill, spiritosissimo, lasciò uno dei suoi capolavori commentando che quando si apriva la portiera dell’auto del grigio primo ministro laburista Clement Attlee (che l’aveva sconfitto nel ’45) non usciva nessuno. L’artista dell’insulto della Gran Bretagna d’oggi è Boris Johnson: definì Hillary Clinton «l’infermiera sadica di un manicomio» e scrisse un poemetto sarcastico nel quale accusava il leader turco Erdogan di avere relazioni sessuali con le capre (che Johnson sia potuto diventare ministro degli Esteri dice qualcosa sui tempi che stiamo vivendo).

Ma sono i presidenti americani di solito, nell’era moderna, i destinatari di pubblici insulti, a volte assai grevi; l’elemento di novità introdotto da Trump è proprio quello del presidente americano che passa all’attacco («America First» almeno in quello). È stato molto pubblico l’insulto rivolto dal presidente delle Filippine Rodrigo Duterte a Barack Obama, «figlio di puttana»; Hugo Chávez, venezuelano, aspettò di andare all’Onu per definire George W. Bush «il diavolo».

C’è Silvio Berlusconi con quel «kapò» riferito a Martin Schulz (c’è il video, al contrario del fantomatico, volgarissimo insulto alla linea di Angela Merkel contenuto in una presunta intercettazione che non affiorò mai e che pare doveroso catalogare fino a prova contraria tra le «fake news»).

Ma per la teoria quantitativa degli insulti, il vincitore — al momento, con Trump basta un tweet per cambiare tutto — è il ministro della Difesa siriano Mustafa Tlass che chiamò il leader dell’Olp Yasser Arafat «figlio di 60 mila puttane».

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