Milano, 24 novembre 2017 - 22:34

«L’Isis rischia di crescere in Egitto
Ma non si può dare
carta bianca al regime»

L’esperto del«Carnegie Endowment for Peace» di Washington: «Il riemergere dell’Isis nel sud della Libia e in Egitto e uno dei rischi maggiori nella regione»

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Dopo la fine dell’Isis in Iraq e in Siria, c’è il rischio che il movimento jihadista riemerga più vicino a noi?

«Il riemergere dell’Isis nel sud della Libia e in Egitto è uno dei rischi maggiori che vedo in questo momento nella regione. In Egitto la repressione degli islamisti, il fatto che sono diventati un movimento sotterraneo, aumenta il timore che riemergano con un’insurrezione. E il Sinai è completamente fuori controllo: questa è una seria minaccia per l’Egitto e per la stessa durata del regime di Al Sisi».

Frederic Wehrey, esperto del «Carnegie Endowment for International Peace» in transizioni post-conflitto, gruppi armati e politica dell’identità soprattutto in Nord Africa e nel Golfo, è stato a Milano, ospite del Consolato americano, prima di partire per la Libia, Paese su cui sta scrivendo un libro. Da tempo Wehrey lamenta gli errori nel combattere gruppi jihadisti come Ansar Bait al-Maqdis in Egitto: «Molti governi arabi nutrono l’estremismo che dichiarano di combattere, e lo fanno cercando la protezione dell’America. Gli Stati Uniti dovrebbero insistere, come condizione nel fornire armi e aiuti contro il terrorismo, che il governo egiziano adotti una strategia per affrontare anche i cronici problemi economici e politici che hanno portato all’emarginazione della popolazione del Sinai. La lotta sarà infinita se continuerà a basarsi solo su tattiche di antiterrorismo».

Dopo il fallimento delle Primavere arabe, i Paesi occidentali sono tornati ad appoggiare i dittatori nella regione. Con quali risultati?

«Non credo affatto che sia una buona idea: le dittature sono instabili e tendono a crollare in modi violenti. Pensiamo a Gheddafi e come ha esportato a lungo il terrorismo, in Iraq e altrove. È un patto con il diavolo. Queste società non sono sostenibili se guidate da governi autoritari».

Trump ha scelto chiaramente di appoggiare l’Arabia Saudita, gli Emirati e l’Egitto in chiave non solo anti-Isis ma anche anti-Iran.

«È un problema enorme. I sauditi erano frustrati quando Obama cercava di essere un mediatore neutrale e li criticava per la mancanza di riforme, anche se durante la sua amministrazione l’America ha comunque venduto più armi a Riad che sotto George W. Bush. Ma Trump ha sviluppato legami personali con i sauditi ed è volato là nella sua prima visita all’estero. C’è stato un ritorno alla dottrina di Nixon, alla scelta di schierarsi con una parte nelle dispute regionali. Secondo alcuni l’appoggio Usa dovrebbe portare gli alleati ad agire in modo più responsabile, ma è successo il contrario».

Ad aprile uscirà un suo libro sulla Libia, «Burning Shores» (Coste in fiamme). Perché la Libia?

«È un caso importante per capire cosa abbiamo sbagliato. Obama ha definito il maggiore fallimento della sua presidenza il fatto di non aver pensato ad un piano per la Libia dopo la rivoluzione. Ora l’Onu si domanda se sia un bene o no che i Paesi che emergono da regimi autoritari vadano subito a votare? Da una parte vuoi un governo legittimo ma dall’altra spesso non sono pronti».

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