Milano, 30 settembre 2017 - 22:35

Rohingya, un popolo braccato

Sono oltre 500 mila le persone che sono passate in qualche settimana dallo status di sottospecie umana a quello di bestie braccate. Per le Nazioni Unite sono la minoranza più perseguitata del mondo

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Un artista, come spesso accade, ci aveva messi in guardia. Si chiama Barbet Schroeder. Lo ha fatto attraverso un film bello e profondo — Le Vénérable W, ritratto del monaco birmano Ashin Wirathu, detto «W» — che mostra l’altro volto (razzista, fascista, di una violenza da mozzare il respiro e le teste...) di un buddismo universalmente percepito come il prototipo della religione di amore, di concordia e di pace. Il film è stato presentato a Cannes. Ha beneficiato di una copertura mediatica impressionante.

Ricordo una trasmissione di Ali Baddou, su un canale del servizio pubblico, dove questo conduttore televisivo annunciava, con una sicurezza che retrospettivamente fa paura, come la minoranza musulmana della Birmania occidentale, i Rohingya, fosse sotto la mira del partito del «Venerabile». Bastava informarsi per sapere che tale minoranza era una comunità martire, apolide nel proprio Paese, ridotta alla fame per volere dei militari che opprimono il Paese da oltre mezzo secolo, pogromizzata quando i persecutori sono stanchi di affamarla: un milione di uomini e donne cui è vietato votare e avere una rappresentanza politica, l’accesso a ospedali e scuole; un milione d’anime cui viene imposta la condizione unica, inconcepibile per la sua crudeltà calcolata, di essere erranti (perché private di esistenza ufficiale in un Paese che spinge l’ossessione razziale fino a censire 135 «etnie nazionali», numero che però non include i Rohingya, facendo di loro, letteralmente, una razza di troppo) e al tempo stesso costrette ai «domiciliari» (infatti, per legge, non hanno diritto di circolare, né di lavorare e nemmeno di sposarsi al di fuori del loro villaggio d’origine).

Solo che non ci si è informati. Non si è ascoltato il cineasta, né i pochi giornalisti che, da anni, parlano al vento. E ora, ecco che ci siamo. Per una di quelle accelerazioni storiche che nulla sembra annunciare ma di cui dovremmo sapere, per esperienza, che hanno il ritmo della pulsione genocidaria, sono oltre 500 mila le persone che sono passate in qualche settimana dallo status di sottospecie umana a quello di bestie braccate. Asfissiate da incendi nei villaggi in cui erano state relegate, spinte sulle strade, mitragliate, ancora incalzate, torturate per puro piacere, violentate in stupri di massa, queste persone giungono, quando per miracolo sopravvivono, fino ai campi di fortuna installati alla frontiera con il vicino Bangladesh.

Per le Nazioni Unite che, eccezionalmente, hanno attinto in quel che rimaneva loro di onore per denunciare questi crimini, i Rohingya sono oggi la minoranza più perseguitata al mondo. Per chiunque sappia ascoltare e abbia almeno un po’ di memoria, ci troviamo di fronte a una situazione che ricorda la pulizia etnica in Bosnia o, peggio, i massacri nel Ruanda. E poiché i Rohingya non hanno volto, poiché i loro persecutori, grazie al blocco delle immagini che hanno predisposto, stanno effettivamente per riuscire a disumanizzarli, poiché i Rohingya sono musulmani e di questi tempi non è bene esserlo, tutti, o quasi, se ne infischiano.

Davanti a questa tragedia annunciata, si può meditare su ciò che l’amico Jean-François Revel chiamava conoscenza inutile o passione dell’ignoranza. Si può imprecare contro la ingenuità che ha portato tutti noi a santificare la famosa «signora di Rangoon», cui è stato dedicato un altro film, stavolta agiografico, che però, se guardato con distacco, è sconfortante: infatti è lei, Aung San Suu Kyi, diventata di fatto la leader del Paese, ad aver dato il colpo di grazia ai Rohingya. Si può segnalare en passant (ma senza molte speranze, purtroppo, che vada in porto) la petizione con la quale si chiede le sia ritirato il premio Nobel; un premio che, ai tempi in cui sembrava reincarnare in un unico corpo Mandela, Gandhi o il Dalai Lama, le avremmo attribuito molto volentieri; ma che ora, da quando Aung San Suu Kyi ci garantisce, con la mano sul cuore, che non ha visto nulla nella città di Sittwe, che non è successo niente nell’Arakan e che tutte queste notizie preoccupanti sono soltanto la «punta emersa di un iceberg di disinformazione», è diventato un premio-alibi.

Intanto, possiamo formulare soprattutto un augurio: giovedì scorso, è stata la signora di Dacca, Sheikh Hasina, primo ministro del Bangladesh, a salire sulla tribuna delle Nazioni Unite per invitare a una mobilitazione e per chiedere aiuti. Conosco Hasina da quasi cinquant’anni; fin dai nostri lontani tempi della giovinezza ho avuto tante occasioni di apprezzare non solo la sua nobiltà d’animo, ma anche il suo attaccamento viscerale a un Islam moderato, illuminato, amico dei diritti dell’uomo e delle donne. Mi auguro che a New York le coscienze che hanno ascoltato quest’altra signora siano state sufficienti a far sì che la campana da lei suonata non abbia la funebre risonanza del rintocco a morte.

(Traduzione di Daniela Maggioni)

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