Milano, 5 ottobre 2017 - 21:53

Il Taj Mahal scompare dalle guide
La censura indù sul tesoro moghul

Per i nazionalisti il capolavoro d’arte islamica non rappresenta l’India

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Il Nobel Tagore lo definì «una lacrima di marmo, ferma sulla guancia del tempo». Milioni di persone affrontano ogni anno lunghi viaggi per poterlo ammirare e per rivivere, tra le sue forme imponenti e i marmi dai colori cangianti, una delle storie d’amore più struggenti mai tramandate. Quella dell’imperatore moghul Shah Jahan che pazzo di dolore per la perdita della moglie prediletta onorò la promessa fattale in punto di morte: non dimenticarla mai e costruire, a sigillo di questo amore eterno, il mausoleo più spettacolare al mondo: il Taj Mahal.

Il monumento prenderebbe il nome proprio da lei, Mumtaz Mahal, morta durante il parto del 14esimo figlio, e non in un incidente stradale come azzarda in The Millionaire il trovatello protagonista del film di Danny Boyle che tra i suoi mille lavori di strada a un certo punto si improvvisa guida abusiva di una coppia di stranieri nel celebre palazzo. Ma quello che è considerato l’edificio emblema dell’India e icona dell’amore senza fine (è ancora qui che — sempre in The Millionaire — il giovane protagonista porta l’amata Nita, in una notte di luna piena, per dichiararsi), è scomparso dalla lista dei siti turistici nella guida appena pubblicata dal governo dell’Uttar Pradesh, lo stato indiano che lo ospita. Come se di colpo non trovassimo più la Grande Muraglia tra le mete in Cina, o il Colosseo a Roma.

Non una dimenticanza, a quanto pare. L’Uttar Pradesh da marzo è guidato da un guru indù conosciuto per le sue posizioni estremiste nei confronti delle minoranze religiose, musulmani in primis. Adityanath, questo il suo nome, eletto nelle file del Bjp, il partito dei nazionalisti indù guidato dal premier Narendra Modi, di recente aveva già polemizzato con l’usanza indiana di omaggiare i visitatori stranieri di rango con mini riproduzioni del Taj Mahal: costruito dai moghul, islamici, questo reperto non è rappresentativo della cultura indiana, aveva spiegato il religioso. Del resto lo scorso giugno lo aveva persino escluso dai monumenti indiani beneficiari dei fondi destinati alla manutenzione dei beni artistici.

Nel nuovo vademecum turistico questo capolavoro dell’arte islamica, annoverato tra le sette meraviglie del mondo e dichiarato patrimonio dell’Unesco, è stato rimpiazzato, manco a dirlo, da siti induisti come Mathura — considerato il luogo di nascita del dio Krishna — e Ayodhya, la città dove sarebbe nato il dio Rama, luogo da secoli al centro di una disputa tra le comunità islamica e indù.
La mossa ha sollevato polemiche, con accademici, storici e politici che si sono scagliati contro il tentativo di ridurre la cultura indiana a quella induista, in un Paese laico, multiculturale e multireligioso per nascita e tradizione. «È come eliminare il Principe di Danimarca dall’Amleto di Shakespeare» ha tuonato il portavoce del partito del Congresso, all’opposizione, mettendo in risalto l’aspetto tragicomico della faccenda.

Certo non basterà cancellare il Taj Mahal da una brochure di promozione turistica per compromettere la sua forza d’attrazione. Ma che il nazionalismo culturale indù non sappia integrare questo capolavoro nella propria narrativa ne mette in mostra la debolezza. Tra l’altro l’autore del romanzo da cui è tratto il film The Millionaire, ambientato anche al Taj Mahal, è Vikas Swarup, attuale portavoce del ministero degli Esteri. Che debba rivedere anche lui la sua opera?

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