Milano, 6 ottobre 2017 - 22:20

Tremonti: l’Europa dall’anima burocratica ha minato gli Stati nazione

L’ex ministro sulla crisi catalana: «Tanti apprendisti stregoni nell’Unione. La crisi pesa. Ma l’Italia non è la Spagna, lì pesa la rigidità della Costituzione.»

Giulio Tremonti Giulio Tremonti
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Parte da lontano il ragionamento di Giulio Tremonti: «La storia non è un algoritmo, contiene tante cose. Ad esempio, la musica. L’inno della Catalogna è quello di un popolo che ha sofferto, quello della Spagna scorre come una marcia dell’ancien régime». Ma come si spiega questo scontro frontale? «La storia, che si credeva finita con la fine del comunismo e l’avvio della globalizzazione, è tornata e corre insieme a noi. Scandita dalla crisi, che le élite pensavano fosse solo finanziaria, e che invece è diventata economica, sociale e infine anche politica. E non si può escludere un effetto di ritorno, dalla politica all’economia, con le società e le banche che potrebbero fuggire dalla Catalogna». Quella spagnola è una crisi anche europea? «L’Europa non fa quello che potrebbe e dovrebbe fare — una guida politica — e ha fatto quello che non doveva fare, mirando negli ultimi 30 anni alla progressiva erosione degli Stati nazionali». In che modo? «L’idea dell’Europa è stata ed è grande, ma sono piccoli gli uomini che la reggono, si fa per dire, oggi. Piccolo è il discorso delle “vele e del vento” di Juncker, anche se scritto in tedesco, involontariamente comico il cartongesso sorbonico di Macron...». Non sarà tutta colpa loro. «Fin dal principio l’Europa si è basata su una doppiezza, su una dialettica tra Stati nazionali e l’Unione, con due modelli alternativi: quello del Trattato di Roma del ’57, una Confederazione di Stati Nazione, e quello che parte da Ventotene per arrivare a Maastricht». Che intende? «Intendo il manifesto del ‘41, insieme eroico e terribile: gli Stati nazione causa di dittatura e guerra. Il disegno di Ventotene comincia ad affermarsi, ma lo fa virando dall’eroico al burocratico, con il Trattato di Maastricht basato tra l’altro sulla costruzione di un rapporto privilegiato tra l’Unione di Bruxelles e le Regioni. Un transfer di denari mirato a bypassare gli Stati». E quindi? «La linea politica di riduzione degli Stati è venuta a incrociarsi di colpo con la linea “rivoluzionaria” della crisi: “lo strapotere della finanza”, la “gioventù senza speranza”, “il crescente divario tra ricchi e poveri”, “l’immigrazione di massa”, “la concorrenza asiatica”... Oggi si tende a far credere che tutta questa situazione non sia colpa delle élite, apprendisti stregoni che non hanno gestito e capito, ma del populismo che vota male. Ma come mai i referendum quando sono “ortodossi” sono democratici, altrimenti diventano demoniaci?». La Catalogna è ricca, perché la rottura? «Perché la vita non si riduce solo all’economia. La pressione drammatica del tempo fa riemergere la memoria e la storia, l’identità e la terra, le tradizioni. Anni fa ho scritto sul ritorno del “romanticismo”, ed è qualcosa di simile a quello che, in forme diverse, sta emergendo un po’ ovunque. Patria dove riposano le ossa dei tuoi padri». Lei ha sempre difeso un modello di forte federalismo. «Che si regge se inquadrato in uno Stato nazionale forte ed intelligente, come avrebbe potuto essere, e ancora potrebbe essere, il nostro». Vede un «rischio catalano» per l’Italia? «In Italia la sequenza è stata: prima il referendum per la Repubblica, poi la Costituzione repubblicana. In Spagna la sequenza è stata rovesciata negli anni 70: la Costituzione spagnola identifica nel Re non solo la forma di governo, ma addirittura la forma di Stato. Una incorporazione quasi medievale. Una “magia” che sembra non funzionare più». La Catalogna indipendente come amputazione del corpo del Re? «Immagine chiarissima. Temo che il maggior pericolo sia proprio nella rigidità costituzionale. Laicamente le Costituzioni non sono testi sacri e immodificabili. Anche senza cambiarli, si interpretano con buona volontà».

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