Milano, 17 ottobre 2017 - 21:14

L’Isis e la caduta di Raqqa, dove andranno i leoncini del Califfo?

I timori per il destino dei bambini nati nello «Stato islamico» che non hanno colpe

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Lo Stato Islamico perde le sue roccaforti una dopo l’altra, gruppi di combattenti si disperdono, colonne raggiungono nuovi rifugi, nuclei di meno convinti alzano bandiera bianca. Periodo tumultuoso che coinvolge militanti di esperienza, ma anche le loro famiglie. Alcuni sono fatti prigionieri, altri uccisi. Dietro restano donne e figlioletti, una realtà che rappresenta un problema per molti Paesi europei. Che fare di loro? Come accertare le responsabilità? E come recuperare bimbi spesso testimoni o persino autori di violenze inaudite?

I numeri indicano quella che può diventare un’emergenza che si aggiunge al pericolo per la sicurezza rappresentato dai veterani islamisti. Il Belgio ha censito un centinaio di minori nel Califfato: 29 nati in patria, il resto in Iraq e Siria. Il 60% ha un’età compresa tra 0 e 4 anni, il 20% tra 4 e 8. La Francia ne ha 460, la metà sotto i cinque anni. Una cinquantina sono rientrati nei confini nazionali. L’Olanda ne segnala un’ottantina. La Gran Bretagna oltre 50. L’Italia, che tra gli Stati dell’Unione è quella con una presenza relativamente bassa di mujaheddin (125), ritiene che i piccoli non superino la mezza dozzina.

La situazione caotica sul terreno rende difficile l’identificazione e la localizzazione. Inoltre i massacri compiuti dai tagliagole spingono i vincitori — specie le milizie — alla vendetta. Purtroppo guerriglieri di Daesh hanno addestrato dozzine di ragazzini a diventare combattenti, li hanno sottoposti ad un indottrinamento pesante, per poi utilizzarli nei video di propaganda come boia. Erano e sono i «leoncini», i «cuccioli» cresciuti per portare avanti la lotta quando i padri non ci saranno più. Sono creature senza infanzia e forse senza un futuro a meno che non ci siano dei programmi ad hoc che li riportino ad una vita normale, sempre che superino traumi inauditi. E anche volendo è tutt’altro che semplice convincere alcune madri, immerse fino al collo nell’attività politica a collaborare in un’attività di de-radicalizzazione speciale, studiata per bimbi. Che non sono tutti uguali.

I francesi hanno individuato tre categorie: i partiti al seguito dei genitori, i nati nelle zone di guerra, i nati in Europa e con il padre sui fronti della Jihad. E’ evidente che ognuno presenta un aspetto diverso, molto personale, con caratteristiche cambiano a seconda dell’ambiente. I belgi, con la collaborazione dei turchi, sperano in piccoli centri di passaggio nel settore di Idlib, dove chi vuole tornare può presentarsi. E’ solo il primo passo, sperimentale. Una volta tornati a casa devono essere presi in carico da psicologi e esperti, al tempo stesso serve un setaccio per evitare sorprese. Per gli adolescenti c’è anche un percorso giudiziario minorile. Non va dimenticato che l’Isis, nel 2017, è riuscito a reclutare in Francia e Germania numerosi sedicenni ai quali aveva affidato il compito di condurre attacchi. Ordini impartiti in modo remoto, via Internet.

Se il collasso dovesse proseguire è probabile che gli ispiratori cercheranno di coinvolgere i più giovani in quanto manipolabili. Esseri fragili trasformati in vuoti a perdere e istigati a compiere attentati. Per i governi occidentali è forte la tentazione di lasciare queste comunità di connazionali in Medio Oriente. Gli irriducibili rischiano di lasciarci la pelle, i familiari rimangono in un limbo. La sorte affidata al caso. Per i primi non piangiamo, pagano per i loro crimini. Lo stesso non possiamo dire dei bambini plagiati e finiti sotto la bandiera di Al Baghdadi. Loro non hanno scelto.

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