2 febbraio 2018 - 20:43

I 50 anni del Maggio francese, se tornasse quella passione impertinente che mondo vorrei

Oggi si direbbe che siamo tutti ebrei tedeschi, iraniani liberi, turchi insorti, iracheni sognatori e Rohingya

di Bernard-Henri Levy

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L’anniversario del Maggio ’68 si avvicina al gran galoppo. E se le celebrazioni evitassero la prevedibile enfasi, i sapienti studi e i racconti degli ex combattenti? Se scegliessero, magari per una sera, o per un’ora, o per il tempo di un sogno a occhi aperti, di attingere alla fonte dell’evento, alla cascata di impertinenza, di rabbia ironica, di fraternità erudita che, cinquant’anni fa, guidarono le barricate entusiaste, gli anfiteatri in rivolta e i giorni di follia in cui Parigi piombò in un’atmosfera flaubertiana di educazione sentimentale?

L’insubordinazione non sarebbe più appannaggio di un partito, e i sostenitori della vecchia sinistra, quella dalle idee di piombo, espatrierebbero — ma per davvero — a Baden Baden. I socialisti si metterebbero a sognare piuttosto che a fare mozioni. Gli «zadisti» (militanti impegnati nella protezione di una «Zone à défendre», Zad, ndt) sarebbero come Zazie nel metró, e dalle piste mancate di Notre-Dame-des Landes decollerebbero razzi di speranza.

Gli uomini e le donne smetterebbero di muoversi ciascuno per proprio conto e gli innamorati, gli amici del desiderio e della passione non si scaglierebbero contro i porci, ma scaglierebbero sampietrini sugli istigatori del nuovo ordine morale che si annuncia. Verrebbe spiegato alle femministe patentate che Catherine Deneuve, con i suoi film, ha allentato il giogo delle donne più di quanto esse non riusciranno mai a fare con i loro dibattiti collerici e gli inviti alla delazione.

Sulle piazze esultanti verrebbe distribuito un libretto rosso con estratti di Marivaux, di una canzone di Ronsard e delle pagine più ardenti di Alla ricerca del tempo perduto. Ci si rammenterebbe che le lunghe marce finiscono sempre per bloccarsi e che i loro timonieri sono come Timone, di Shakespeare, che la falsa amicizia dei cortigiani ha tagliato fuori dalla vita vera.

Se Paul Ricoeur resuscitasse, constaterebbe che un figlio del Maggio ’68, suo discepolo, sembra aver comunque imparato l’arte di fare respirare una società. Il Parlamento non sarebbe più «in marcia» ma a spasso; si muoverebbe, obliquamente, su scorciatoie e cammini senza dogana ideologica; vi si leggerebbero Rimbaud, Baudelaire e Romain Gary così come i rapporti della Corte dei conti. Si preferirebbe vivere a Montevideo in ricordo di Lautréamont piuttosto che morire a Caracas per Maduro.

Si griderebbe ai birmani, agli egiziani, agli algerini che la volontà generale prevale sulla volontà di qualsiasi Generale. Negli Stati Uniti, si interpellerebbero gli industriali sospetti e i fossili dell’energia per invitarli a rileggere Günther Anders o André Gorz — e, così, «make the planet great again». Si lascerebbero disperdere, in tutti i Quartieri latini del mondo, i lacrimogeni appiccicosi e le fumarole dei pensieri bruni: Orban sarebbe messo al bando; si griderebbe «Né patria né Putin!» oppure «Fbs, SS!»; si capirebbe che un Donald non vale nemmeno un Mickey e si pregherebbe Erdogan di far l’amore con la pace invece di far la guerra con i curdi della zona di Afrin. I «sorbonari» (studenti e professori della Sorbona) preferirebbero Kundera a Guevara.

Si leggerebbe Lacan piuttosto che Laclau; e si danzerebbe, in boulevard Saint-Michel, facendosi beffe dei populisti, radicati e «autoctoni», ben felici d’essere nati da qualche parte. Si venderebbero alla Cina libri che noi abbiamo letto fin troppo e forse, allora, le missioni diplomatiche tornerebbero con le braccia cariche non di contratti, ma di dissidenti liberati. Si chiuderebbero le televisioni di propaganda per aprire gli occhi sulle tragedie del mondo (o allora si costringerebbe «Russia Today», sotto pena di una ammenda colossale, a diffondere di continuo immagini delle guerre di Cecenia, Ucraina e Siria). Su Twitter si intimerebbe ai Troll di smascherarsi e di uscire dal loro anonimo buco internet. Si diventerebbe astuti come le volpi di fronte ai Gafa (Google, Apple, Facebook, Amazon), un altro tipo di polizia. Si distribuirebbero dei like, ma non con un clic Instagram, ai poliziotti di una volta, quelli che vegliano davanti a Charlie Hebdo, alle sinagoghe e alle stazioni, come anche ai contadini di Parigi, protagonisti delle rivoluzioni fatte veramente; il cappello di Aragon sarebbe portato al Pantheon; e ognuno vorrebbe morire a trent’anni piuttosto che rinnegare se stesso a sessanta.

L’aria tornerebbe ad essere di un rosso scarlatto, non più antracite, il colore delle nostre tristi passioni. Si rammenterebbe ai còrsi che le frontiere, comunque, non esistono. Ai catalani, che Mario Vargas Llosa vale più di Carles Puigdemont. Parigi diventerebbe una seconda Comune, dove si direbbe di nuovo al mondo che siamo tutti ebrei tedeschi, iraniani liberi, turchi insorti, iracheni sognatori e Rohingya minacciati. Si farebbero barricate con le biciclette a noleggio; si trasformerebbe la rue des Ecoles in Piazza Maïdan o nel parco Gezi per dire che i veri insubordinati sono sempre cosmopoliti; si proietterebbero in place de la Concorde, su schermo gigante, le immagini dei richiedenti asilo ingiustamente respinti; i lungosenna sarebbero riaperti per le sfilate di psicanalisti e disoccupati in collera, di seguaci di Foucault e di difensori del diritto alla pigrizia, di ecologisti californiani, di carnivori non pentiti, di lettori di Abdelwahab Meddeb che scandiscono «né jihad né veli», di ammiratori di Rushdie e di Polanski: siamo realisti, chiediamo l’impossibile.

Così, piuttosto che invocare i penati spenti dei tre giorni più tesi, a fine maggio ’68, dei «trenta gloriosi» (gli anni di crescita dalla fine della Seconda guerra mondiale allo choc petrolifero, ndt), piuttosto che guardare e riguardare le diapositive in bianco e nero dei nostri Gavroche ormai canuti, piuttosto che sviscerare, da vecchio Paese, quel che abbiamo avuto di migliore, ritroveremo il sale delle nostre settimane sante.

(Traduzione di Daniela Maggioni)

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