20 gennaio 2018 - 23:06

Davos, i capi di Stato alla corte dell’1%

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Da domani a venerdì, settanta leader politici vanno a Davos a visitare quelli che vivono sei mesi di più. Raj Chetty, un economista di Stanford, di recente ha calcolato che chi è al vertice della scala dei redditi — il top del «top 1%», con entrate annue dai cinque milioni di dollari in su — in genere sopravvive in vecchiaia circa sei mesi più a lungo anche dei semplici ricchi da due milioni l’anno. Questi ultimi a loro volta resistono più di quelli da un milione e giù fino a chi non guadagna nulla e muore, in media, quindici anni prima di chi è al vertice.

Questa élite del «top 1%» — speranza di vita media, 87,3 anni — sta per ritrovarsi a 1.600 metri di altitudine a Davos attorno a coloro che sono stati eletti per rappresentare tutti gli altri. Al World Economic Forum del 2018 è annunciato il numero record di 340 fra presidenti, primi ministri, leader di organismi internazionali, ministri e re come Felipe di Spagna o Abdullah di Giordania. Più che un vertice, negli ultimi giorni è sembrata una gara fra politici ad annunciare la propria presenza non appena ciascuno di loro è venuto a sapere di quella del proprio collega e rivale: arriverà Donald Trump dagli Stati Uniti (a meno che lo shutdown non lo induca a cambiare idea), ma prima di lui sfileranno di fronte alla folla di Davos il presidente francese Emmanuel Macron, la cancelliera tedesca Angela Merkel, i loro colleghi di Irlanda, Norvegia, Danimarca, di dieci Paesi africani, oltre ai presidenti di Argentina e Brasile Mauricio Macri e Michel Temer, i premier di Canada e Regno Unito Justin Trudeau e Theresa May, e quello indiano Narendra Modi. La Cina, star dell’edizione 2017 con il presidente Xi Jinping, quest’anno si limita a Liu He, un membro del politburo del partito (pudicamente descritto come «componente dell’ufficio politico»). Dall’Italia, con una decisione presa quasi all’ultimo, il premier Paolo Gentiloni ha fatto sapere che ci sarà. Con lui il presidente della Commissione Ue, Jean-Paul Juncker.

Non tutti questi leader erano frequentatori abituali di Davos. E in fondo sembra paradossale un tale affollamento di figure elette dai ceti medi in una conferenza nella quale il patrimonio dei 433 attesi a parlare è stimato — da WealthInsight — in 414 milioni di dollari per ciascuno. Paradossale lo è senz’altro, se accostato ai motti del programma ufficiale: si parla di «creare un futuro condiviso in un mondo spezzato», di «superare le divisioni nella società» e soprattutto di «produrre uno sviluppo sostenibile e inclusivo». I leader ne parleranno con centinaia di banchieri dai patrimoni a nove cifre (inclusi quelli di Goldman Sachs o JpMorgan) e dodici miliardari fra i quali Bill Gates di Microsoft e Jack Ma di Alibaba.

Spiazzante, per chi guarda da fuori. Questa è una generazione di politici cresciuta promettendo molto al «Forgotten Man», l’uomo medio schiacciato dalla Grande recessione, dalle fabbriche rumene, cinesi o messicane e dalle tecnologie che sostituiscono l’opera umana. Invece i due insiemi, politici e «top 1%», a Davos si confondono e sovrappongono persino: fra i 12 miliardari attesi figura non solo Trump (patrimonio, 4,5 miliardi di dollari), anche il presidente ucraino Petro Poroshenko (1,6 miliardi).

Poi però uno guarda bene la lista dei presenti, e sospetta che questa promiscuità in fondo sia terribilmente logica. La concorrenza fra Paesi per catturare investimenti si sta facendo più feroce ed è salita di grado: prima bastava che un imprenditore ne chiamasse un altro; poi è iniziata a servire la telefonata di un ministro; e oggi è durissima attrarre capitali esteri senza l’intervento diretto del capo politico di un Paese. Così i leader si trasformano in lobbisti di ultra-lusso. Costretti ad ascoltare le richieste, mai disinteressate, dei loro interlocutori.

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