10 marzo 2018 - 19:43

Scatti, velo e post su Twitter «Salverò Tripoli dall’oblio»

La fotografa Shalabi si batte per il patrimonio storico della città e ha lanciato una campagna con l’hashtag #savetheoldcitytripoli.

di Francesco Battistini

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Velo e occhiali scuri, perché meno ti riconoscono e meglio è. Va bene anche lo smartphone, perché è meglio non dare nell’occhio. Difficile passare per turista, perché la Libia il suo meglio non lo dà più da un pezzo. «M’è sempre piaciuto fotografare la nostra architettura», dice Hiba Shalabi, 41 anni: «Ma adesso tutto questo è diventato qualcosa di più. E’ un dovere». Di solito, Hiba esce la mattina e cammina, cammina. E scatta, scatta. Una volta, accade che documenti lo scempio compiuto dai salafiti alla moschea di Darghout Pasha, 969 anni di storia, una delle più belle di Tripoli: hanno sfondato il minbar di marmo che s’alzava di tre gradini, secondo la tradizione dei musulmani libici, perché quei tre scalini non piacciono all’Islam made in Qatar che vuole una preghiera rasoterra e uguale per tutti, e allora via, giù picconate… Un’altra volta, un altro clic in città vecchia: il saccheggio dei ladruncoli al consolato americano, un palazzo d’inizio ‘900 ormai ridotto a una rovina, o i graffiti scemi sui portali blu della vecchia ambasciata olandese… Hiba fotografa, twitta, scrive: «Spargete la voce, il mondo deve sapere che pericolo corriamo: bisogna salvare Tripoli!».

#savetheoldcitytripoli. La fotografa per passione s’è trasformata in una pasionaria della bellezza ereditata dai Romani, dagli Ottomani, dall’Italia coloniale. E la sua battaglia per una delle più antiche medine del Nord Africa p diventata una campagna social: 6.374 adesioni, centinaia di tripolini a postare brutture, tanti follower libici stremati da una guerra civile infinita e da un’inciviltà che sta finendo la loro storia. «La città vecchia è il nostro passato — dice Hiba —, risale ai Fenici. Ma non c’è nessun piano per salvarla. Dovremmo preservarla per le generazioni future, invece non si fa che distruggerla». Le immagini raccontano tutto: l’Arco di Marco Aurelio che oggi sembra un posteggio, perché «la soprintendenza alle belle arti ha rattoppato le pietre con materiali moderni»; la moschea Dawud, circondata d’acciaio e cemento; il pulpito ligneo e in stile andaluso ottocentesco di Basha, portato chissà dove; le sure sufi di Mizran, scalpellate con cura; i sepolcri ottomani di Karamanli e Gurgi, scoperchiati e fatti a pezzi, perché il musulmano radicale non contempla l’adorazione dei defunti… Vandali cretini & barbuti fanatici. Sul social, Hiba e gli altri sono prudenti ed evitano d’accusare i fondamentalisti religiosi. Parlano soprattutto della sciatteria, dell’incuria, dell’incoscienza in questo dopo-Gheddafi. «Ma c’è un’operazione sistematica e ben organizzata della memoria — dichiarò tempo fa un anonimo archeologo al Lybia Herald —, molte di queste demolizioni non si possono improvvisare». E richiedono, se non il consenso, almeno il silenzio omissivo delle autorità. Dalle metope romane di Leptis Magna usate per i falò notturni, ai resti greci di Cirene assediati dalle case, dalle pitture neolitiche di Tadrart Acacus graffitate, alle rovine abbandonate di Sabratha, l’Unesco ha già lanciato l’allarme. A Tripoli, i tesori del Museo nazionale sono nascosti nei depositi e nessuno sa ancora che fine abbia fatto la Gazzella (nuda) del Vanetti, statua liberty anni Trenta che nel 2015 fu presa a mitragliate su un’aiuola spartitraffico e poi sparì, o il monumento all’eroe nazionale Omar Mukhtar. «Non c’è futuro senza storia e le pietre sono la nostra storia, più dei libri», sospira Hiba: «Hitler diceva che per distruggere un popolo basta distruggere il suo passato. Noi non abbiamo bisogno d’un Hitler per fare a pezzi il nostro ieri: stiamo facendo benissimo da soli. Spero l’Occidente capisca che la nostra civiltà va messa in sicurezza». Se la bellezza salverà il mondo, il mondo ha voglia di salvare questa bellezza?

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