30 marzo 2018 - 22:32

I fuochi accesi, l’Iran e Trump
Cosa può succedere a maggio

Tempi e nodi del conflitto in Medio Oriente

di Franco Venturini

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L’attenzione generale è ancora, e giustamente, puntata sulla Siria, sul martirio di Ghouta Est, sull’avanzata dell’esercito turco contro i curdi, sui focolai dell’Isis che allungano i loro artigli terroristici fino all’Europa, come la Francia e l’Italia stanno sperimentando in questi giorni. Ma i tempi sono ormai maturi per ampliare l’orizzonte, per capire che mentre il conflitto siriano continua (e continuerà) in scala minore cresce un rullar di tamburi ancora più minaccioso. La partita che si sta aprendo si gioca in Israele, in Iran, in Europa e negli Usa.

Per Israele il problema di Gaza è oggi secondario, benché la Striscia resti una spina nel fianco pronta a deflagrare. Anche a causa, occorre ricordarlo, delle eccessive privazioni imposte direttamente o indirettamente da Israele in tema di materiali per la ricostruzione e di forniture di prima necessità. Forse sta nascendo a Gaza un movimento «né con Hamas né con Abbas», forse Israele potrebbe alleggerire il grilletto e tentare di sfruttarlo politicamente, ma oggi non è questa la priorità che le autorità israeliane si trovano a dover affrontare.

Perché la priorità si chiama Iran, o più precisamente minaccia iraniana. Una minaccia che per Israele ha assunto carattere esistenziale, e che percorre due binari complementari.

Il primo è quello della mezzaluna sciita tenuta a battesimo dall’espansionismo iraniano. Sciita e dunque contrapposto ai nuovi amici sunniti di Israele (come i sauditi) è il regime di Assad a Damasco, prima salvato e poi consolidato da Mosca e da Teheran. Prevalentemente sciita è l’Iraq, dove gli americani, dopo aver liquidato Saddam, hanno riportato la maggioranza al potere. Sciita è il «partito di Dio» libanese Hezbollah, che ha combattuto in Siria e che svolge un ruolo determinante nei fragili equilibri politici di Beirut. E il Libano confina con Israele. La tenaglia è chiara, e si è andata precisando e rafforzando nell’ultimo biennio. Finché si tratta di missili iraniani che arrivano in territorio siriano e che potrebbero essere ceduti a Hezbollah per poi colpire Israele, l’aviazione israeliana provvede a distruggerli con attacchi mirati. Ma l’ultimo di questi attacchi ha comportato la perdita di un aereo. Quanto tempo ha ancora Israele prima di sentirla stringere, la tenaglia? Oppure sarà il multi-religioso Libano a riesplodere per primo, coinvolgendo però Israele anche in questo caso? Gli allarmi sono fondati.

Il secondo binario è quello nucleare, e parte da Washington. Donald Trump ha dato un ultimatum agli europei, che assieme a Obama, alla Russia e alla Cina avevano concluso nel luglio 2015 un accordo con Teheran per limitare i suoi programmi atomici: se per il 12 maggio prossimo l’Iran non avrà fatto concessioni in tema di missili balistici e di comportamenti regionali, gli Stati Uniti usciranno dall’accordo già definito «il peggiore della Storia» provocandone una più che probabile fine. Gli europei, per ragioni economiche ma anche strategiche e di sicurezza, stanno tentando di convincere Teheran e riflettono su sanzioni anti-iraniane (diverse da quelle revocate dopo il patto) che il 12 maggio potrebbero forse convincere Trump ad aspettare ancora. Israele ha la speranza opposta e appoggia pienamente Trump, anche se i servizi israeliani riconoscono che l’attuale accordo è meglio di niente (dopo un suo siluramento l’Iran potrebbe riprendere i programmi atomici senza limitazioni e senza alcun obbligo di trasparenza).

Cosa farà l’America, tenendo presente che due giorni dopo, il 14 maggio, sarà inaugurata la sede dell’ambasciata Usa a Gerusalemme? Esiste, e avrà fortuna, il fantomatico piano di pace che la Casa Bianca doveva approntare prima della disgrazia del genero presidenziale Kushner? E quanto radicale sarà l’effetto della nomina dei «falchi» Pompeo e Bolton a fianco del Presidente?

Interrogativi questi che di sicuro rimbalzano anche a Gerusalemme, dove peraltro la posizione del premier Netanyahu davanti alla giustizia non è stata ancora chiarita. Israele su una cosa appare unito e compatto: non si può permettere che l’Iran si doti dell’arma nucleare. Per la sua conformazione, un solo colpo rischierebbe di distruggere lo Stato ebraico. Ma quale è la via migliore per prevenire questo spauracchio? Un attacco militare in tempi brevi, forse? L’ipotesi di una accelerazione militare esiste, e sembra essere diventata più forte soprattutto a Washington, mentre parallelamente si allontana l’uso della forza contro la Corea del Nord.
Quanto precede ci dice che siamo già nel tempo delle scelte supreme. A cominciare dal 12 maggio

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