16 dicembre 2017 - 19:59

La prova di responsabilità
che attende la sinistra

il punto sostanziale non è stabilire quanti amano e quanti detestano Matteo Renzi, ma se si stia riproponendo o no il pericolo mortale di una questione sociale e di una questione democratica in aperto conflitto

shadow

Nel bel libro di Franca Chiaromonte e Fulvia Bandoli appena uscito da Harpo (Al lavoro e alla lotta, le parole del Pci) non si trova, alla lettera «S», la parola: «Sinistra». Una clamorosa dimenticanza? Ma no. Da noi non c’è mai stato qualcosa di simile alla gauche. In Italia, i comunisti e a lungo anche i socialisti («le sinistre», si diceva, al plurale) davano per scontata la loro appartenenza al campo in questione, naturalmente. Consideravano però il concetto di sinistra un po’ troppo vago, e persino un po’ troppo ambiguo, per dare conto dell’azione e della cultura politica di comunità vaste e corpose come i partiti, i sindacati, le organizzazioni di massa in un Paese in cui lo scontro politico si imperniava su fascismo e antifascismo, comunismo e anticomunismo, molto più che su sinistra e destra.

La sinistra ha cominciato a parlare e a far parlare di sé, fino ad annoiare e ad annoiarsi, solo da qualche decennio, da quando cioè i suoi partiti sono entrati in crisi, e i mondi che rappresentavano si sono dispersi: chi siamo, che cosa vogliamo, perché dobbiamo stare insieme o, all’opposto, separarci. Ma non deve essere un caso se queste discussioni si sono fatte sempre più estenuate ed estenuanti, sino alla tristissima situazione attuale. Forse questa assoluta improduttività deriva, in qualche modo, dall’inconsistenza teorica e pratica della contesa. Dal fatto cioè che oggi non è chiaro a nessuno che cosa precisamente si intenda quando ci si definisce di sinistra.

Si potrebbe anche dire che non è la prima volta. In fondo, questa parola è entrata in politica quasi casualmente quasi 230 anni fa, il 28 agosto 1789, a Versailles, quando, all’Assemblea costituente, i sostenitori del veto reale andarono a sedersi a destra del presidente, e gli oppositori alla sinistra, per facilitare il conteggio dei voti: sarebbe potuta andare anche al contrario. Ma nel tempo questo termine di per sé meno che generico, e in origine pure assai poco rassicurante (nel Vecchio e nel Nuovo Testamento, la destra è il bene, la sinistra è il male; e l’aggettivo «sinistro» tuttora sta per bieco, minaccioso) ha fatto in tempo a incarnarsi prima, a reincarnarsi più volte poi. Nata liberale e progressista, la sinistra è diventata democratica e radicale. Poi ha incontrato il movimento operaio: un incontro non facile e nemmeno esclusivo, se è vero, come è vero, che ci sono state pure, per restare all’Italia, una sinistra democristiana, una sinistra liberale, una sinistra repubblicana e anche, eccome, una sinistra fascista, ma destinato a durare nel tempo, e a segnare in profondità il Novecento.

Divagazioni? Forse. Fino a un certo punto. Perché è difficile negare che i guai sono cominciati proprio quando questo sodalizio, sin lì litigioso, certo, e però solido, è andato in pezzi, per mille e un motivo, ma soprattutto perché era cambiato il quadro di riferimento: anche il più ortodosso dei marxisti non ce la faceva più a descrivere la classe operaia come l’erede della filosofia classica tedesca che, rompendo le sue catene, libera, e riscalda al sol dell’avvenire, l’umanità intera. Il movimento operaio ha subito un colpo almeno all’apparenza mortale nella sua variante comunista, e quasi contemporaneamente ha cominciato a deperire in quella socialdemocratica. E la sinistra senza radici si è ritrovata nei panni di Anteo, il gigante figlio di Poseidone che traeva tutta la forza necessaria a sgominare gli avversari dal contatto con la madre Terra, quando Eracle riuscì a tenerlo sospeso dal suolo e a strozzarlo. Poteva anche appassionarsi alle riflessioni di Norberto Bobbio, secondo il quale a distinguerla chiaramente dalla destra c’era e ci sarebbe sempre stata la sua connaturata propensione all’eguaglianza. Ma restava incapace di nutrire ambizioni più significative di quella, rivelatasi poi inconsistente, di essere più brava di una destra nel migliore dei casi pasticciona a governare il tempo nuovo della globalizzazione e del neo liberismo.

Chi, dalle parti della sinistra, volesse capire, per provarsi a prendere seppure tardivamente le misure del caso, dove ha origine il cambiamento di paradigma che ha terremotato il terreno della contesa politica (sempre meno sinistra/destra, sempre più basso/alto, cosiddetti populismi/cosiddette élites), di qui dovrebbe prendere le mosse. Anche per rendere più comprensibili, e comunque meno elettorali, i perché delle divisioni attuali. Magari (magari!) fino a scoprire che il punto sostanziale non è stabilire quanti amano e quanti detestano Matteo Renzi, ma se si stia riproponendo o no il pericolo mortale di una questione sociale e di una questione democratica in aperto conflitto: è già successo, e proprio in quegli anni Trenta di cui tanti sproloquiano a vanvera. Forse, per dirla alla Bersani, la mucca di una nuova destra intollerante e rancorosa, indifferente e sempre più spesso ostile alla democrazia, non si è ancora installata nel corridoio di casa. Ma comunque sta sul pianerottolo: bisognerebbe discutere, e magari anche accapigliarsi, su come cercare di accompagnarla fuori. Il tempo per evitare che questo sia il tema di un aspro confronto successivo a qualcosa di ben peggiore di un disastro elettorale, se non è già scaduto, è a un passo dalla scadenza. Ed è difficile credere che di questioni simili si possa venire a capo in tre mesi o giù di lì. A non provarci nemmeno, però, ci si assumerebbe una responsabilità politica e morale inaudita.

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT