26 dicembre 2017 - 21:54

Napoli tra le rivoluzioni
e l’assuefazione al crimine

Dalla gang dei bimbi alle pallottole vaganti: una terra divisa in due tra clan e assediati

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Cosa sta succedendo a Napoli? Il catalogo è vario. Va dal drammatico al grottesco. C’è il quattordicenne di Parete, paesone in provincia di Caserta ma a due passi dalle piazze di «Gomorra», che viene ridotto in fin di vita da una pallottola «vagante»: passava lì dove altri stavano regolando i conti a colpi di pistola, e di conseguenza non potrà essere dove avrebbe voluto, e cioè a firmare per l’Avellino calcio. C’è il diciassettenne che, reduce dalla vittoria a un certamen pirandelliano, mentre in tv la gelida Patrizia di Secondigliano uccide l’incontenibile Scianèl e Genny Savastano, in lacrime, pone fine alla leggenda di Ciro l’Immortale, viene accoltellato più volte e ferocemente da una baby gang. E ci sono altri ragazzini che nella centralissima Galleria Umberto I tornano a violare l’albero di Natale messo sotto scorta perché ritrovato dopo essere stato già abbattuto una prima volta: niente a che vedere con le poetiche scene di un film di qualche anno fa, «Il segreto», che raccontava di bambini-formiche intenti a trascinare giganti abeti postnatalizi per il falò di Sant’Antonio. Ora tutto assume il tono e il ritmo di una sfida spettacolare. Allo Stato? Forse. Alla legalità? Anche. Alla Napoli «borghese». Nessuno può ormai escluderlo. Tant’è che il questore invita a reagire, a utilizzare i telefonini per inviare agli inquirenti foto e video utili alle indagini.

Eppure, per certi versi, a Napoli non sta succedendo nulla che non sia già successo. Fu una pallottola vagante, due anni fa, a uccidere il giovane Genny Cesarano nel quartiere Sanità. Fu uccisa così, venti anni fa, anche la madre di Alessandra Clemente, l’attuale assessore ai giovani. E le inventò il compianto don Riboldi, a Ottaviano, quasi un quarto di secolo fa, le marce anticamorra. Ma da qui all’assuefazione del «chevuoichesia» il passo potrebbe essere breve. E sarebbe paradossale perché, adattando a Napoli ciò che Giorgio Agamben dice per altri contesti, in città sta succedendo qualcosa che sarebbe da irresponsabile sottovalutare. Qui, infatti, «vi sono tanto una polemologia, una teoria della guerra, che una irenologia, una teoria della pace, ma non esiste una stasiologia, una teoria della guerra civile». E qualcosa di molto simile a una guerra civile non ufficializzata — tra città armata e città assediata — è appunto ciò che la cronaca ci restituisce. Tradotto, vuol dire che oggi a Napoli c’è chi, come Saviano, spiega tutto, o quasi, in termini di scontro criminale, di guerra tra clan rivali per il controllo di tutti i quartieri. E chi, come il sindaco, garantisce invece che «Napoli non è più violenta di Milano»; e che il clima che si respira in città è quello di una rinascita civile e culturale. Manca invece — nonostante i cinquanta e più scrittori pubblicati che Napoli può vantare, il più alto numero in Italia — il racconto complesso di una città divisa, contraddittoria, impaurita eppure pronta a prendere d’assalto i baretti della movida. Non è un caso che tutti oggi si affannino a parlare di «rivoluzione». C’è la rivoluzione arancione di de Magistris, appunto. Ma c’è anche la «rivoluzione» del governatore De Luca a proposito del Pil campano schizzato al +3,2%, il più alto in assoluto. O, ancora, la «rivoluzione» a cui accennano i ministri quando parlano dei turisti a Pompei o del futuro, dopo 25 anni di sprechi, nell’area di Bagnoli. La rivoluzione è infatti, spiegano gli storici, l’altra faccia della guerra civile. È lo stesso processo visto dalla parte dei «buoni». È la storia che si compie in modo irreversibile. Più che fotografie del reale, però, queste visioni rivoluzionarie annunciate a Napoli non sono altro che proiezioni positive. Buone intenzioni. E se perfino il picco del Pil campano dice che non basta una ripresa economica a risolvere il problema criminale dell’intera area metropolitana, resta il fatto che troppe cose sono ancora così come sono sempre state.

Due anni fa, quando alla Sanità fu ammazzato Genny Cesarano, nella top ten nazionale delle scuole con più bocciati Napoli ne aveva cinque. Oggi «nell’unica scuola superiore del rione Sanità — sottolinea padre Alex Zanotelli — il dato percentuale dei bocciati è del 74%. Iscritti 140, promossi 57. E c’è anche una classe in cui su 16 iscritti, solo uno è stato promosso». Conclusione: «Dove è finito il lavoro dei professori? I ragazzi sono in strada a cercare l’unica cosa che gli interessa: fare soldi e fare in fretta; e a scuola ci sono prof che pensano solo allo stipendio». La provocazione brucia. Ma è evidente che, esagerazione a parte, nella guerra civile napoletana si è aperto un altro fronte. Sotto accusa, ora, non sono solo lo Stato nazionale o le istituzioni locali. Ma anche i professori, una volta intoccabili. Gli stessi professori, però, che seriamente si interrogano sul cosa fare («in realtà come queste non è una buona soluzione l’alternanza scuola-lavoro, con 400 ore sottratte alla formazione») e che partecipano alla mobilitazione contro la camorra.

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