Milano, 6 ottobre 2017 - 21:15

La sconfitta dello ius soli
e gli interrogativi sui diritti

E’ stata frenata l’integrazione non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è già tra noi
da dieci o vent’anni, solo un terzo dei quali sono islamici

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Lo ius soli è (quasi) morto. E sembra assai difficile che a rianimarlo basti lo sciopero della fame di Graziano Delrio assieme a un gruppo di parlamentari e comuni cittadini raccolti attorno all’appello dei Radicali e di Luigi Manconi.

Salvo veri colpi di scena, il diritto a essere italiani di ottocentomila bambini e ragazzi nati o cresciuti tra noi non verrà riconosciuto in questa legislatura perché non ha più maggioranza nel Paese prima ancora che al Senato. Troppo stretta la finestra d’intervento nell’iter della legge di stabilità; troppo alto il rischio che, aprendola davvero, si abbattano venti di tempesta sul governo Gentiloni (di cui peraltro Delrio fa parte). Ma è bene sgomberare il campo dagli equivoci. Lo ius soli nostrano (certo migliorabile ed emendabile, ma già assai temperato e accompagnato dallo ius culturae) non è stato abbattuto dal sovranismo di Matteo Salvini o dai ripensamenti di Angelino Alfano. E neppure dal pragmatismo un po’ cinico del Pd. Nemmeno la crisi economica e le ondate di sbarchi sono state forse determinanti, perché il nostro Paese, al dunque, si era in passato sempre dimostrato capace di aprire le braccia ai più deboli, condividendo ciò che aveva.

Diciamolo chiaro. I diritti dei giovani italiani di seconda generazione sono stati vittime del terrorismo jihadista. Sei anni fa, il 71 per cento dell’opinione pubblica era favorevole allo ius soli. Gli ultimi sondaggi danno questa quota poco sopra il 40 per cento: un crollo senza precedenti. In mezzo ci sono stati gli attentati in Europa che, da Charlie Hebdo in poi, hanno assunto cadenza quasi mensile, mietendo centinaia di vite innocenti nelle nostre strade e insinuando in ciascuno di noi il timore dell’altro, specie quando l’altro proviene da una cultura aliena e spesso ostile come è stata a lungo nella storia d’Italia la cultura islamica. Perfettamente comprensibile, dunque, il rovesciamento del sentimento collettivo che sull’anemica politica di questi tempi pesa, attraverso i sondaggi, assai più delle idee, giuste o sbagliate che siano. L’assassino di Marsiglia urlando «Allah u Akbar» sposta più di mille analisi e concioni. Ma una politica saggia dovrebbe serbare la capacità di toccare i cuori e le menti di una comunità, non inseguirne la deriva emotiva.

Infatti se esiste un nesso tra gli attentati terroristici in Europa e lo ius soli è un nesso al contrario: è intuitivo che a maggiore integrazione corrisponda minor «rischio banlieue», meno sacche di rancorosi esclusi nelle nostre periferie, e zero o quasi zero rischio multiculturale poiché nell’impianto normativo italiano non sarebbero riconosciute sacche di ambiguità «all’inglese», con la sharia infilata di soppiatto a regolare i rapporti privati.

Ai nuovi concittadini si sarebbe chiesto di giurare sulla Costituzione, di conoscere la nostra lingua, di fare da ponte con le loro famiglie, migranti di prima generazione, rendendole a noi più prossime e comprensibili. In cambio si sarebbe dato loro ciò che oggi non hanno, pur vivendo nelle case e nelle scuole d’Italia sin da bambini: la possibilità di partecipare a concorsi pubblici e iscriversi ad albi professionali senza intoppi, di gareggiare col tricolore sul petto, di non essere costretti ad attendere dai quattro ai sei anni (questi sono i tempi veri, raccontano in molti, e con file estenuanti all’ufficio stranieri della questura) per ottenere forse, infine, l’agognato passaporto.

E’ assai probabile che tutto ciò non succederà, colpendo l’integrazione non di chi sta arrivando sui barconi ma di chi è già tra noi da dieci o venti anni. Il fatto che la componente islamica rappresenti soltanto un terzo della platea dello ius soli (ci sono cattolici, ortodossi, buddisti e, immaginiamo,… atei) aggiunge un tocco di surreale ingiustizia al quadro. La compressione dei diritti individuali e delle soggettività dentro macro-categorie spirituali (l’orientamento religioso del Paese d’origine pare assorbire l’identità personale come se non fossero passati quattro secoli e mezzo dal «cuius regio eius religio» che attribuiva al suddito la fede del suo signore) suona infine come una abdicazione ai principi liberali.

Tant’è. Per superare ciò che in casa Pd chiamano realpolitik ma somiglia assai a una navigazione a vista, occorrerebbe non uno sciopero della fame ma un politico così forte e credibile da poter dire ai suoi concittadini: fidatevi di me e seguitemi, la strada giusta non è quella che voi credete. La più prossima a questo identikit è Angela Merkel, e persino lei ha pagato un altissimo prezzo elettorale alle sue aperture sui rifugiati siriani. I nostri politici continuano a ispirarsi a quel fantastico caleidoscopio dei caratteri italici che ci donò Manzoni: «Il buonsenso c’era; ma se ne stava nascosto, per paura del senso comune». Si parlava di peste e untori, pare scritto ieri.

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