7 aprile 2018 - 20:21

La politica del cassonetto
nelle trincee-periferie

A Genova multa per chi fruga nella spazzatura: il decoro urbano base della convivenza democratica. A Roma la filiera commerciale dei rifiuti in mano ai rom

di Goffredo Buccini

Cassonetti dei rifiuti colmi a Roma (LaPresse)
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La gestione dei cassonetti e degli scarti nelle nostre città ci dice molto sull’idea della cosa pubblica di chi governa aree di crisi complesse: periferie, geografiche o sociali che siano, in un Paese come il nostro, che conta cinque milioni di poveri assoluti e 500 mila migranti «invisibili», spariti dai radar dell’accoglienza.

Ha fatto scalpore la decisione della giunta di Genova a trazione leghista di multare chi fruga nella spazzatura in centro storico, al Porto Antico e in piazza della Vittoria: la sinistra è insorta con proteste e petizioni. La giunta si avvarrà per la zona turistica anche del decreto Minniti contro il degrado urbano (pure gravato a suo tempo da polemiche). Diciamolo subito: finora l’alternativa era girarsi dall’altra parte, non per afflato umanitario ma per quel benaltrismo che tutto depreca e nulla mai risolve (il vero nodo? La povertà nel mondo...). Dal punto di vista di un cittadino medio chi fruga nella spazzatura segnalerà, certo, rilevanti iniquità planetarie ma va innanzitutto allontanato da quel cassonetto. Difficile non capire le ragioni di chi governa una città dove la Commissione parlamentare sulle periferie stimava nel 2017 dodicimila dei 500 mila invisibili di cui dicevamo.

Semmai si può discutere l’efficacia di una multa comminata a chi mai la pagherà. Si coglie un che di declamatorio. Lo sosteneva, già a proposito del decreto Minniti, Flavio Tosi: proponendo però detenzioni amministrative (quattro ore di camera di sicurezza comminate dal questore), certo assai difficili da accettare per ragioni ordinamentali prima ancora che di principio (occorre un magistrato per privarci della libertà).

In questa materia, tuttavia, una dose di pragmatismo serve, eccome. Non solo a Genova. Ma nelle tante città che vivono condizioni simili o peggiori e nelle quali il decoro va inteso come base della convivenza democratica e non certo come astratto orpello ottocentesco (democraticamente, il decoro di una piazza permette a una vecchietta sola e magari malferma sulle gambe di andare a fare la spesa senza paura).

Distinguere, dunque. Lo promette l’assessore genovese Garassino: applicheremo la delibera con umanità, dice. E in effetti il provvedimento è stato emendato per non sanzionare chi fruga alla ricerca di cibo (non più di due casi su dieci). C’è chi va affidato all’assistenza pubblica, sfamato e curato. Ma chi fa dei rifiuti urbani una filiera commerciale va perseguito: basta risalire la filiera.

Roma, primo laboratorio pentastellato, è un bell’esempio: qui la filiera è tutta in mano ai rom. Per ogni cassonetto romano c’è ormai un «addetto»: non un vecchietto emaciato in cerca di pane, ma un giovane rom che fruga professionale, sezionando indisturbato le nostre vite scartate dai sacchetti di plastica e abbandonando in strada ciò che non gli interessa. La filiera dove porta? Al recupero di metalli e oggetti poi venduti in nero ai demolitori e nei mercatini abusivi: famoso è stato a lungo il mercatino del venerdì di via della Moschea, chiusa al traffico per buche (a gennaio sono infine intervenuti i vigili). Un mezzo di sussistenza e riciclo? Forse, ma anche un circuito ramificato che fa dell’illegalità una pratica accettata: cui ci abituiamo pericolosamente, a volte contribuendovi. Perché poi questa filiera tollerata corre parallela a una seconda filiera molto meno folcloristica: quella dei rifiuti tossici bruciati nei campi rom di Roma, Torino, Napoli, Milano, quattro metropoli ad alto rischio d’avvelenamento.

Seguendola, si troverebbero i bambini rom mandati dalle famiglie ad accendere i roghi (perché non perseguibili). E risalendo ancora ci si imbatterebbe in imprese italiane — spesso mafiose — che anziché pagare il dovuto per smaltire materiali tossici li affidano ai rom per pochi euro (i medesimi rom sono dunque nostri complici oltre che nostri carnefici). La Commissione antirazzista «Jo Cox» della passata legislatura si doleva a ragione che l’82 per cento degli italiani avesse un’opinione negativa dei rom. Ma ammetteva che si tratta di un classico processo di «avvitamento»: illecito e stigma si rafforzano a vicenda.

Arrivando in fondo alla filiera, si potrebbero dunque liberare i bimbi da genitori che li sfruttano (l’abbandono scolastico tocca l’80 per cento), colpire imprese che praticano l’illegalità, spegnere i fuochi e bonificare le aree con beneficio per la salute dei cittadini che abitano nei paraggi (l’anno scorso a Torre Spaccata la diossina ha superato di 20 volte i limiti dell’Oms per effetto dei roghi tossici).

Si può fare qualcosa? Certo. A Roma come a Genova o a Milano, con l’impiego massiccio della municipale e il ricorso a più giudici di pace contro i reati «bagatellari». In generale con un approccio laico e attivo. Ancora una volta, distinguendo (non si può spazzare tutto con una botta di ruspa, occorre la pazienza del caso per caso) e dunque lavorando più seriamente. Ne sarà valsa la pena. La piccola storia dei cassonetti e degli umani che vi si affollano attorno è una bella cartina di tornasole per capire quanta fatica o quanta demagogia o quanta rimozione metterà domani chi governerà quelle trincee civili che già oggi sono diventate le nostre periferie.

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