31 gennaio 2018 - 20:56

Le elezioni (rimosse) degli altri

Con le nostre Politiche sono in arrivo altri due appuntamenti. In Russia si vota per far restare Vladimir Putin al Cremlino, in Egitto per confermare presidente il generale Abdel Fattah Al Sisi

di Franco Venturini

Abdel Fattah Al Sisi e Vladimir Putin a Mosca in una foto d’archivio (Afp)
shadow

Messi a dura prova dalle nostre elezioni, tendiamo a dimenticare quelle degli altri. Eppure due appuntamenti in arrivo, almeno loro, non dovrebbero sfuggire alla nostra residua attenzione. Perché toccano i nostri interessi geopolitici, e anche perché sulla loro scarsa democraticità dovremmo avere qualcosa da dire.

In Russia si vota il 18 marzo per far restare Vladimir Putin al Cremlino, in Egitto si vota il 26 marzo per confermare presidente il generale Abdel Fattah Al Sisi. I due in materia elettorale si somigliano a tal punto che Al Sisi è stato ribattezzato «il Putin del Mediterraneo»: i possibili concorrenti vengono energicamente dissuasi, talvolta finiscono in galera come è capitato di recente all’ex capo di stato maggiore Sami Anan, e il risultato è che Al Sisi non avrà rivali capaci di infastidirlo. Il metodo non sorprende, se si pensa che in Egitto sono scomparsi per sempre centinaia di oppositori e Giulio Regeni è stato massacrato come ben sappiamo. Ora la rielezione di Al Sisi allontanerà ulteriormente l’accertamento della verità sul nostro connazionale, perché il generale-presidente continuerà a non potere e a non volere mettere alla berlina i suoi servizi e il suo ministero dell’interno. Al Sisi sarà invece atteso alla prova del terrorismo, alla vittoria sempre annunciata e mai raggiunta contro le tribù ribelli e i nuovi jihadisti del Sinai settentrionale. E dovrà, se vorrà sopravvivere alla messinscena elettorale, migliorare una congiuntura economica prossima al disastro. Ma il maestro, dicevamo, è Putin.

Lui sa molto meglio del rozzo Al Sisi come evitare candidature fastidiose, come far condannare da giudici che si dicono indipendenti quel Navalny che da blogger populista è ora diventato il condottiero di un’ampia fetta di gioventù urbana, come far reprimere a norma di legge le manifestazioni ostili, come incoraggiare candidature critiche capaci di legittimare il responso elettorale ma non tali da preoccuparlo (questo ruolo è stato assegnato alla giovane e bella Ksenia Sobchak, star televisiva, figlia del mentore dell’emergente Vladimir negli anni di San Pietroburgo). Per Putin, sicuro di vincere anche se Navalny fosse della partita e per nulla spaventato dalla pur coraggiosa Ksenia, a contare sarà l’affluenza alle urne in una Russia che sembra aver ritrovato l’apatia dei tempi sovietici. Con una differenza: Putin è davvero molto popolare, può davvero contare sull’appoggio di una netta maggioranza della popolazione (dal 60 al 70 per cento) e usufruisce da sempre del convinto appoggio della Chiesa ortodossa.

Eppure, quella che attende il capo del Cremlino non sarà una passeggiata. Dal 19 marzo si porrà in Russia il problema della successione, tanto spesso sinonimo di feroce lotta di potere. Alla scadenza del nuovo mandato nel 2024, se vorrà rispettare la Costituzione come ha già fatto dal 2008 al 2012, Putin non potrà brigare ancora la presidenza. Tornerà a fare il premier piazzando il Medvedev di turno al Cremlino, si ritaglierà un altro incarico su misura, oppure passerà il testimone? La sola possibilità di questa terza opzione agita già le acque moscovite, e promette colpi di scena a ripetizione.

Ma nell’attesa di sapere cosa di preciso accadrà al Cairo e a Mosca dopo le scontatissime verifiche elettorali, noi europei e noi occidentali non dovremmo porci qualche quesito? Non dovremmo chiarire, per una volta, come la pensiamo? Visto che i metodi usati da Putin e ancor più da Al Sisi sono contrari ai nostri valori democratici, dovremmo forse sperare inutilmente che perdano, e gridare allo scandalo quando vinceranno?

La verità raramente ammessa è che se rinunciamo all’ipocrisia (con l’eccezione del caso Regeni, che vorremmo veder finalmente chiarito), le rielezioni di Putin e di Al Sisi sono per noi il male minore. Una caduta di Al Sisi farebbe piombare l’Egitto nel caos e nella destabilizzazione fino al prossimo colpo di Stato. Militari, Fratelli musulmani, salafiti, jihadisti nuovi e vecchi, nemici giurati dei copti, darebbero tutti il loro contributo. E ai flussi migratori che non calano (è diminuita soltanto la possibilità di raggiungere l’Italia dalla Tripolitania) si aprirebbe una nuova, gigantesca e poco presidiata porta sul Mediterraneo. Proprio ora che in Libia – con l’obbligo di affrontare davvero la grave questione umanitaria degli orrori che avvengono nei campi di detenzione libici – l’Italia sta provando a disegnare una politica.

Quanto a Putin, soltanto la destra americana che ha sempre capito poco della Russia crede che un ricambio ravvicinato al Cremlino porterebbe al potere i «democratici» alla Navalny. È una fortuna ed è anche una promessa che i giovani russi siano oggi più vicini ai nostri valori, ma essi rappresentano forse il 30 per cento nei soli centri urbani. Troppo poco per rovesciare il tavolo. La realtà è che dopo Putin, oggi, in Russia salirebbero alla ribalta gli ultranazionalisti con o senza divisa. Pronti a mostrarsi ancor meno flessibili di Putin in Ucraina e in Siria, a coltivare più di Putin il dogma dell’America nemica e dell’Europa inaffidabile, a usare più di Putin ogni risorsa per gli armamenti, anche nucleari. Il tutto in una cornice di lotta politica permanente e di una marcata imprevedibilità. È il caso di ricordare la formula tanto spesso ripetuta in Occidente ai tempi della guerra fredda: l’unica cosa più pericolosa di una Russia forte, è una Russia debole.

Al Sisi e Putin, in definitiva, hanno la loro utilità strategica. Ma come dimenticare il resto, le loro tendenze totalitarie, i loro metodi e i loro abusi? Beninteso non dobbiamo dimenticarli. Dobbiamo invece dire a voce alta come la pensiamo sulle scelte di Al Sisi e sulle alchimie elettorali di Putin. Dobbiamo respingere la tentazione di tacere e condonare perché i due Presidenti ci servono così come sono. Dobbiamo esigere (in verità su questo l’Europa ha fatto quel che poteva) che in Ucraina si arresti una carneficina che dal 2014 ha fatto più di diecimila morti. E dobbiamo dire con chiarezza, ai russi che vengono accusati di possedere missili proibiti dal trattato Inf, come ai nostri alleati americani che si preparano a fare altrettanto, che da queste parti non vogliamo un ritorno al tempo degli euromissili. E che non consideriamo saggio fornire a Kiev armi letali, che possono soltanto gettare olio sul fuoco senza valutare con onestà i torti e le ragioni di ognuna delle parti. Geopolitica, verità e diritti umani devono andare insieme, nel Mediterraneo come nel cuore dell’Europa. Ma i candidati alle nostre elezioni, avranno mai pensato alle elezioni altrui?

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT