2 febbraio 2018 - 20:59

Le attese tradite dal presidente Erdogan

Occorre che Erdogan non lasci Roma senza sapere ciò che l’Italia pensa della sua politica

di Sergio Romano

Il presidente Erdogan Il presidente Erdogan
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La politica, l’economia e la geografia hanno leggi a cui non è facile derogare. Negli incontri con Recep Tayyip Erdogan, durante la giornata romana del presidente turco, parleremo inevitabilmente di interscambio, delle industrie italiane che lavorano nel suo Paese, dei migranti siriani che la Turchia trattiene sul proprio territorio dopo l’accordo stipulato con la Commissione europea, dell’esistenza di un comune nemico (l’Isis) contro il quale è necessario condividere informazioni e coordinare strategie.

Ma commetteremmo un errore se non ricordassimo all’ospite che l’Italia ha un particolare motivo per deplorare la svolta autoritaria del suo governo. Per parecchi anni abbiamo creduto nella evoluzione democratica della Turchia. Abbiamo detto a noi stessi e ai nostri partner in Europa che il nuovo Erdogan era alquanto diverso dal militante islamista e ribelle dei suoi anni giovanili (fece qualche mese di prigionie fra il 1998 e il 1999). Abbiamo fatto un investimento politico sulla speranza che il Partito per la giustizia e lo sviluppo (AKP), da lui fondato nel 2001, sarebbe divenuto l’equivalente musulmano di una Democrazia cristiana. Abbiamo constatato con piacere che le riforme di Erdogan sembravano avere una influenza positiva sulla evoluzione democratica di altri regimi musulmani del Mediterraneo.

Quando ci siamo scontrati con le obiezioni e le perplessità di altri membri della Ue (Austria, Francia, Germania), abbiamo sostenuto che niente avrebbe favorito il riformismo turco quanto la prospettiva dell’adesione alla Unione Europea.

Oggi, invece, siamo costretti a constatare che Erdogan ha tradito le nostre attese e le nostre speranze. Non mi spingo sino a pensare (come altri osservatori, fra cui Antonio Ferrari sul Corriere) che il colpo di Stato del luglio 2016 fosse soltanto una messa in scena per giustificare le incarcerazioni e le epurazioni dei mesi seguenti; ma devo riconoscere che Erdogan si è servito di quella vicenda per regolare i conti con i militari e con un vecchio alleato, Fethullah Gülen (oggi esule negli Stati Uniti). Non voleva limitarsi a punire i congiurati. Voleva cogliere l’occasione per instaurare un regime duramente repressivo e illiberale.

Chi ha avuto occasione di visitare la Turchia prima del «golpe» ricorda che la rete di istituzioni scolastiche e associazioni professionali tessuta da Gülen nella società turca era una evidente anomalia; ma non tale da giustificare la brutalità con cui Erdogan, dopo essersi sbarazzato di avversari e concorrenti, sta impedendo alla stampa di fare il suo mestiere. Sapevamo che esisteva una questione curda e che ogni governo turco, indipendentemente dalla sua composizione, avrebbe difeso l’unità nazionale. Ma negli anni in cui il ministro degli esteri era Ahmet Davutoglu, una soluzione sembrò possibile. Dal carcere, in un’isola del Mar di Marmara, il leader curdo Abdullah Ocalan, lanciava segnali di pace che il suo partito sembrava pronto a raccogliere. Oggi, invece, Erdogan combatte i curdi anche là dove sono stati maggiormente utili alla guerra contro l’Isis.

Occorre che Erdogan non lasci Roma senza sapere ciò che l’Italia pensa della sua politica. La diplomazia ha le sue leggi e vi sono circostanze in cui gli interessi possono prevalere su altre considerazioni. Ma il presidente turco deve ricordare che insieme agli interessi esiste nelle relazioni internazionali anche un altro fattore, non meno fondamentale, che ad Ankara, in questo caso, è stato completamente trascurato. Si chiama fiducia.

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