21 febbraio 2018 - 15:52

Prodi e D’Alema,
liti da «grandi amici»

Un bisticcio continuo. Soprattutto quando il professore rivendicava il proprio ruolo di guida dell’Ulivo

di Gian Antonio Stella

shadow

«Lo dico con grande amicizia...». Ed è lì che chi ha un po’ di memoria è scoppiato a ridere. Ma come: Massimo D’Alema infilza Romano Prodi sui rapporti col Pd di Matteo Renzi («Il compagno che sbaglia semmai è lui») e dice di parlare con «grande amicizia»? Quando mai? Sono ventidue anni che si scambiano staffilate! Certo, tutto cominciò con parole molto cortesi, nel marzo del 1995, quando l’allora segretario del Pds, seduto in terza fila nella Sala Umberto dov’era in corso un convegno dell’aggregazione di centrosinistra che avrebbe dovuto reagire alla legnata subita l’anno prima dal Cavaliere, si levò in piedi e sentenziò: «Professore, lei è una persona seria e noi abbiamo deciso di conferirle la nostra forza». Un passaggio storico. Ma letto dal «prof» bolognese con moderata riconoscenza: dato che gli eredi di Togliatti avrebbero perso sempre schierando un candidato loro, la scelta era obbligata. E l’«amico Romano» ce l’aveva chiarissimo. Né avrebbe mai accettato di sentirsi come i cespugli sotto la quercia nel ritratto dalemiano: «Ci sono generali senza truppe che gentilmente acconsentono di essere votati da noi».

Certo è che da allora se le sono date spesso di santa ragione. Soprattutto dopo la prima caduta che Romano Prodi, al di là delle affermazioni di serenità («Perdere Palazzo Chigi per quel voto in Parlamento è stato il gesto più bello della mia vita») si legò al dito martellando per mesi il «Lider Maximo» che gli era subentrato al governo fino a sfidarlo con «I democratici»: «Competition is competition». Di più: facendo pesare perfino il suo ok a fare il presidente della Ue: «Ma come: D’Alema dice che sono un provinciale a capo di un movimento di provinciali e mi candida alla più altra carica europea?» Di più ancora, sfogandosi per il «complotto» che l’aveva rovesciato: «Abbiamo vinto le elezioni ma abbiamo perso l’Ulivo. È morto, ucciso dalla furbizia, dalla mancanza di morale, dai fiorentinismi, dalla restaurazione dei partiti. Ho tanto amato l’Ulivo che ho accettato di passare per coglione pur di salvarlo». Un bisticcio continuo. Soprattutto quando il professore rivendicava il proprio ruolo di guida dell’Ulivo. Rasoiata dalemiana: «Quando è nato l’Ulivo c’ero io e c’era il Ppi. Romano Prodi non c’era, l’abbiamo chiamato dopo. Dopo che abbiamo deciso insieme che era adatto a fare il leader. Non è Prodi che ha chiamato noi e ha costretto i partiti a stare con lui». E via così. Per anni e anni… Grondando amicizia da tutti gli artigli...

© RIPRODUZIONE RISERVATA
ALTRE NOTIZIE SU CORRIERE.IT