7 gennaio 2018 - 23:00

Poche tasse, tanto lavoro: promesse & bugie elettorali

Campagna al via tra gli annunci di tutti i leader su improbabili tagli e costosissimi impegni. Quando Gobetti descriveva «un popolo di dannunziani»

(Ap)
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«Imbianchiamo la casa a tutti! Gratis!». Nel ventaglio di promesse via via offerte agli elettori manca ancora solo il tinteggiatore con vernice e pennello. L’ultimo, col ritorno del pesce spada sotto costa, degli impegni presi da Cetto La Qualunque nel comizio tivù dove assicura l’abolizione delle bollette del gas e della luce. «E se non siete contenti aboliremo la tassa sulla spazzatura, il bollo auto e l’assicurazione». Pausa. «Applauso, va!». Nonostante una storia di propagande elettorali lunga lunga, che vide un «Partito della bistecca» garantire «l’abolizione totale delle tasse» e «svaghi, divertimenti, poco lavoro e molto guadagno per tutti», fatichiamo a ricordare infatti una campagna elettorale così gonfia di promesse. Come se l’Italia, dopo la crisi, non stesse oggi appena appena cominciando a respirare. L’appello di buon senso di Sergio Mattarella, che ha esortato a Capodanno al «dovere di proposte adeguate, realistiche e concrete, fortemente richiesto dalla dimensione dei problemi», pare non aver inciso troppo. E così il richiamo ai «ragazzi del 1899» per ammonire i giovani d’oggi su come pace, libertà, democrazia, diritti non siano «acquisiti una volta per tutte». Parole che al politologo Paolo Feltrin han dato i brividi perché «la drammaticità del momento attuale» gli ricorda «la generazione che visse la confusione fra il 1919 e il 1922, in cui la delegittimazione fra le classi dirigenti provocò lo sbandamento del Paese».

Certo è che anche l’impegno preso ieri da Pietro Grasso di «abolire le tasse universitarie» con una spesa di «1,6 miliardi, recuperando un decimo delle risorse spese dall’Italia per finanziare attività dannose all’ambiente», per quanto sia vero che occorre investire in cultura e che in Germania e altri Paesi d’Europa gli studenti pagano meno o nulla, è apparso come l’ultimo spunto di un «promettificio» fuori controllo. Dove ogni venditore del pacco proprio, come ha scritto Enrico Marro, fa «proposte costosissime in termini di minor gettito per le casse dello Stato» assicurando ovviamente «che ci sarebbero entrate alternative». Tutte da verificare.

Ed ecco Matteo Renzi che, scommettendo su «un altro Jobs act» e nuove decontribuzioni per passare «da 23 a 24 milioni di occupati», vuol cambiar tutto sul canone Rai e dopo averlo messo nella bolletta elettrica («pagare meno, pagare tutti») promette di cancellarlo in nome d’una riforma dell’azienda che darebbe (pare) fastidio a Mediaset ma è appesa a mille incertezze parlamentari. E Luigi Di Maio che sventola l’impegno del M5S a «ridurre il rapporto debito/Pil di 40 punti percentuali nel corso di due legislature» (quaranta punti!) con una «razionalizzazione della spesa» ma «senza ovviamente toccare quella sociale necessaria», e allo stesso tempo vuole distribuire un «reddito di cittadinanza» di 780 euro al mese recuperando i 15 miliardi necessari con tasse su gioco d’azzardo, banche e petrolieri e tagli ad auto blu, enti inutili, pensioni d’oro e vitalizi. Settecentottanta? «Noi di più!», risponde Silvio Berlusconi: a chi sta sotto la soglia di povertà andrà un «reddito di dignità» di «mille euro al mese, da aumentare per ciascun figlio a carico». Non bastasse, in un messaggio video «da coetaneo» al congresso nazionale di Federanziani, ha garantito la nascita di un «ministero della terza età». Primo obiettivo: «È moralmente doveroso aumentare i minimi pensionistici a 1.000 euro al mese per tredici mensilità». E «vale anche per le nostre mamme che han lavorato tutti i giorni a casa».

Matteo Salvini no, a differenza anche di Renzi che vorrebbe aumentare lo stanziamento di due miliardi per il «reddito di inclusione» a due milioni di persone in difficoltà, il leader leghista si dice convinto che «gli italiani chiedono lavoro non soldi a destra o a manca». Promette invece: 1) «Una riforma del sistema fiscale, introducendo una Flat Tax al 15% per famiglie e imprese» (otto punti meno di quanto offre l’ex Cavaliere) con un costo paventato di decine di miliardi. 2) «Paga minima oraria di 9 euro». 3) «Riposo domenicale garantito almeno due domeniche al mese». 4) Riforma della scuola (con una sanatoria per «le maestre d’asilo o elementari, molte delle quali rischiano di essere cancellate dalle graduatorie dopo anni di precariato») e abolizione dell’obbligo di laurea per gran parte delle professioni.

Non manca la soppressione «non negoziabile» della legge Fornero. Luigi Di Maio la propone «graduale, in cinque anni», perché intimorito forse dagli allarmi della Ragioneria generale sul fatto che cancellare la Fornero significa rinunciare a circa 350 miliardi di risparmi messi in conto fino al 2060? Risposta salviniana: «Quali 5 anni, in 5 mesi!» Immaginiamo Giorgio Gaber: «Avanti, avanti, avanti, si può spingere di più!». Per andar dove poi? Perché questo è uno dei paradossi: mentre i sondaggi continuano a premiare, perfino al di là delle fazioni e degli schemi, la compostezza e la sobrietà di uno come Paolo Gentiloni, le incessanti scommesse al rialzo (anche su questioni serie che meriterebbero un impegno serio e comune) stanno drogando la campagna elettorale oltre ogni limite. Un secolo fa andò a finire male. Pochi anni dopo, ne «La rivoluzione liberale», Piero Gobetti scriveva che il nuovo regime fascista era «una catastrofe, un’indicazione d’infanzia decisiva» perché segnava «il trionfo della facilità, della fiducia, dell’ottimismo, dell’entusiasmo». E concludeva amaro con parole che oggi non autorizzano certo a tracciare paralleli tra le muscolari promesse di allora e quelle ammiccanti di oggi. Ma dovrebbero far riflettere: «A un popolo di dannunziani non si può chiedere spirito di sacrificio».

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