13 gennaio 2018 - 22:26

Il ritorno del «voto utile» nella sinistra dei duellanti

A sollevare il tema è il Pd: i consensi a Liberi e Uguali sono dati al nemico. Ma Leu fatica a scrollarsi di dosso l’accusa di puntare alla rovina di Renzi

Massimo D’Alema e Matteo Renzi in una foto del 2014 (LaPresse)
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Rieccolo. Il «voto utile» torna a fare la sua comparsa anche in questa campagna elettorale. Lo avevamo conosciuto da ragazzi, quando ad agitarlo era soprattutto il Pci, contro quei gruppi e quei partitini della sinistra che improvvidamente accettavano la sfida nelle urne, esponendosi all’accusa di fare il gioco dei democristiani e dei padroni («Non un voto vada disperso, non un voto vada perduto»). Ma già prima era stato evocato, seppure con scarso successo, dagli alleati minori della Dc, soprattutto socialdemocratici e repubblicani: i consensi ai comunisti finiscono «in frigorifero», dateli a noi che possiamo spenderli al governo. Poi, per molti anni, lo abbiamo perso di vista. Fino a quando, in un’Italia che nel frattempo si era scoperta bipolare e (quasi) maggioritaria, non è tornato in voga, all’inizio ad opera di Silvio Berlusconi, secondo il quale non c’è nulla di più deleterio che votare per dei piccoli partiti, a meno che non sia lui a federarli, e poi anche nel centrosinistra. E la cosa aveva una sua spiegazione: se la partita è a due, mettersi di mezzo è come tentare un’invasione solitaria del campo; e se si può vincere o perdere per una manciata di schede, chi fa in qualche modo parte della mia famiglia allargata, e invece di votare per me cerca di raggranellare qualche voto in proprio, non sarà magari nemico del popolo, ma di sicuro è amico del giaguaro.

I vecchi partiti, però, non ci sono più da un quarto di secolo. E quel che restava del bipolarismo all’italiana è venuto giù ufficialmente almeno a partire dalle elezioni del 2013, quando un terzo o giù di lì dei non moltissimi che si recarono alle urne decise di votare per i Cinque Stelle, per quanto «inutile», oltre che «dannosa», o «pericolosa», potesse essere considerata la loro scelta. Questo significa che di «voto utile» non si parla più, o magari che ne parli, in chiave antigrillina, solo il centrodestra, per invogliare quanti più elettori possibili ad accorrere in soccorso del (presunto, probabile) vincitore? Neanche per idea. A sollevare nuovamente il tema (talvolta con toni che paradossalmente ricordano il vecchio Pci) è il Partito democratico: ogni voto dato a Liberi e Uguali è un voto dato al nemico. È vero che la sinistra-sinistra fatica assai a scrollarsi di dosso l’accusa di avere nella rovina di Matteo Renzi il suo principale obiettivo, e ancora di più a esercitare l’arte del distinguo: anche chi non la guarda con preconcetta ostilità resta un po’ sorpreso a vederla così recalcitrante (è un eufemismo) di fronte all’idea di sostenere Giorgio Gori in Lombardia e (cosa ancora più sconcertante) Nicola Zingaretti, che oltretutto proprio renziano non è, nel Lazio. Ma la domanda resta in piedi: qual è il nemico principale, per battere il quale bisognerebbe turarsi il naso e votare per un partito, il Pd, della cui politica, a torto o a ragione, si condivide così poco da aver scelto addirittura (e la cosa a degli stagionati postcomunisti non viene così naturale) la via della scissione? In tempi di (quasi) maggioritario la risposta sarebbe stata scontata: Silvio Berlusconi, Matteo Salvini, Giorgia Meloni. Adesso è molto più complicata.

All’inizio sembrava che il fuoco si dovesse concentrare sui Cinque Stelle. Poi ci si è accorti che la destra, divisa quanto si vuole e sempre sull’orlo di una crisi di nervi c’è, eccome, e che Silvio Berlusconi nel mettere su cartelli elettorali è ancora un maestro, e il fuoco si è spostato in quella direzione. Due nemici principali, però, sono in tutta evidenza troppi, specie per un Pd (già aspirante Partito della Nazione) che molto probabilmente si ritroverà, dopo il voto, nel poco esaltante ruolo di terza forza, nonostante il gruzzolo di voti che potranno portargli (sempre che Emma Bonino sciolga le sue riserve) le liste per così dire coalizzate. L’appello al voto utile può funzionare per un partito che realisticamente si candidi o a governare, o ad avere di fatto il monopolio dell’opposizione; altrimenti suona come qualcosa a mezza via tra un’improbabile mozione degli affetti e un altrettanto improbabile ordine di uscire con le mani alzate. Chi scrive è tra quanti, a dire il vero senza illudersi troppo, perché le scissioni lasciano sempre ferite che per cicatrizzarsi hanno bisogno di anni, se non di decenni, avevano pensato che le cose potessero andare almeno un po’ diversamente. Forse, si ipotizzava, almeno uno dei duellanti avrebbe potuto ricordare l’antico (e in realtà perfido) motto del socialista Mitterrand, che ai tempi della gestazione della Union de la gauche in Francia reagiva alle bizze settarie dei comunisti dichiarandosi «unitario per due».

Forse, si sperava, qualcuno con il trascorrere dei giorni avrebbe almeno provato a portare al centro del confronto, e dello scontro, le questioni che più dividono, a cominciare da quelle del lavoro e dei giovani. Forse, si almanaccava, almeno i più politicamente navigati (non tantissimi, in verità) si sarebbero accorti che, in un sistema fondamentalmente proporzionale, i conti tra partiti se non fratelli quanto meno, seppure loro malgrado, cugini, si fanno dopo il voto, non prima, e dunque è bene non solo evitare di accendere, anche nelle durezze dello scontro elettorale, fuochi che nessuno saprebbe domani come spegnere, ma anche individuare, accanto agli infiniti motivi di divisione, qualche ragione che parli in favore di un minimo di unità. Niente di tutto questo, chiacchiere pro e contro il «voto utile» a parte. Soprassalti anche tardivi di razionalità sarebbero sempre benvenuti, si capisce. Ma non è il caso di farci troppo affidamento.

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