4 marzo 2018 - 00:16

La democrazia che dobbiamo reinventare

di Dario Di Vico

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Svegliandoci questa mattina possiamo esser lieti almeno di una cosa, di esserci lasciati alle spalle una campagna elettorale così vacua e irritante. La parola passa agli elettori e mai come questa volta non sappiamo quale sarà l’indicazione degli italiani. Sappiamo che il Rosatellum è una legge con cui nessuno rischia di vincere o di scomparire, è una fotografia degli umori della nazione e niente di più. Le manca quel valore aggiunto che dovrebbe consistere nel trasformare il sentimento popolare in un’ipotesi di maggioranza parlamentare e di conseguenza in un’indicazione di governo. Queste critiche per quanto possano essere radicali non devono però mettere in ombra la forza della democrazia e del metodo della rappresentanza politica. Quale che sia il risultato di oggi dobbiamo tenere a mente che stiamo parlando di valori di lungo periodo, gli stessi che ci hanno assicurato negli anni un esteso ciclo di pace, prosperità, giustizia sociale, crescita della società civile e che hanno permesso a un Paese come l’Italia, pur di piccole dimensioni, di iscriversi nel ristretto rango delle nazioni che guidano il pianeta. Questo riconoscimento, e l’implicito invito a partecipare alle elezioni e a non accrescere il già largo campo degli astenuti, non vuol suonare come elogio dello status quo. La democrazia, per come dovremmo intenderla, è materia viva e ci rifiutiamo di considerarla un fossile.

Gli anglosassoni usano con una certa frequenza l’espressione reinventing per segnare, anche in maniera volontaristica, il passaggio da una fase all’altra. Noi — più disincantati — siamo molto parchi nell’utilizzarla ma è questo il compito che ci attende, quasi a prescindere dall’esito del voto. Chiunque vinca e chiunque perda. Il guaio è che oggi sembra mancarci una classe dirigente — non solo politica — all’altezza del compito, capace di interpretare l’umore della società e fornire delle risposte adeguate. Questo deficit viene dalla somma di tante debolezze: potremmo partire dalle carenze della scuola e proseguire con la mancanza di luoghi di alta formazione, potremmo parlare di una storica tendenza ad ostacolare concorrenza/ricambio o dell’inadeguatezza del nostro capitalismo e persino dei peccati del giornalismo ma alla fine dovremmo concludere che l’ostacolo che abbiamo davanti a noi non è la protervia di una casta. Caso mai il pericolo è rappresentato dal vuoto.

Votare oggi è quindi reinvestire sulla democrazia e sicuramente non in chiave retorica. Non è la nostalgia che ci spinge ma il desiderio di lasciare qualcosa in cui le nuove generazioni possano riconoscersi. Per farlo, con qualche speranza di successo, dobbiamo partire dalle profonde trasformazioni che l’hanno interessata e in qualche maniera depotenziata. I mercati politici restano nazionali mentre le dinamiche che veramente contano — dall’immigrazione alla diffusione delle tecnologie, dai flussi finanziari a quelli commerciali — sono globali. Per di più a fronte di sistemi di rappresentanza dell’Occidente che appaiono rissosi e inconcludenti, i regimi autoritari alla Putin ed ora alla Xi Jinping appaiono più efficienti e persino più moderni. Per tentare di rispondere a queste sfide le classi dirigenti dell’Ovest, ma forse noi tutti, sono/siamo chiamati a un doppio compito: tenere alta la bandiera dell’apertura delle frontiere, dei mercati, delle menti e al tempo stesso ridurre le distanze con le periferie dello scontento. Finora quest’abbinata non è assicurata per nessuno, compreso Macron, e per questo motivo abbiamo la sensazione di essere alla vigilia di un terremoto. Vedremo. E come è compito dell’informazione racconteremo. E chiunque vinca non cambieremo le domande.

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