26 marzo 2018 - 23:34

Le top ten dei libri e la critica che non c’è

Un prodotto dell’intelletto e della creatività come la letteratura è sottoposto alla più brutale valutazione dei numeri. Forse sarebbe meglio evitare

di Paolo Di Stefano

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Torna la (sensata) proposta di abolire le classifiche dei libri. Il paradosso è la regola: i libri — a differenza degli spaghetti, dei detersivi e dei mobili — vengono valutati per quantità di vendita e questa quantità viene spiattellata ogni settimana su tutti i giornali e tutti i giorni online e nelle librerie. Un prodotto dell’intelletto e della creatività come la letteratura è sottoposto alla più brutale valutazione dei numeri. I ristoranti no. Ve le immaginate le classifiche di affluenza nei locali italiani? O le graduatorie commerciali delle automobili, delle giacche o delle scarpe? Giorgio Armani non sarebbe contento di vedere squadernate sui giornali tutte le domeniche le tabelle dei dati di vendita delle sue creazioni. Tanto meno se venissero messi a confronto con i risultati non solo di Versace e Valentino, ma anche con quelli di Zara, Oviesse e H&M. Tutti insieme, l’alto e il basso, il bello e il brutto, indipendentemente dal taglio, dal tessuto, dalla vestibilità: unico criterio il numero di capi smerciati. Giustamente Wlodek Goldkorn sull’«Espresso» sostiene che abolire le classifiche dei libri sarebbe un «atto salutare».

Perché? Confondono e sono una pubblicità gratuita e scorretta: diventano «consigli per gli acquisti». Un sistema tollerato perché, come accade per il Premio Strega, sfacciatamente manipolato dalle pressioni editoriali, tutti sperano che un giorno possa toccare anche a loro un attimo di gloria. Del resto, le classifiche editoriali e il super premio pilotato sono una caratteristica italiana di cui si discute allegramente da decenni. Nemmeno il cinema, il teatro, la musica sono vessati da una tale top-ten mania o top-hundred mania. Forse solo la tv ha la stessa fissazione da share immediato. Per bilanciare lo strapotere del mercato, la critica, ha scritto Alfonso Berardinelli sul «Sole» di domenica, «sarebbe utile e necessaria oggi più che in passato», ma la si tollera sempre meno. È vero che la critica non si preoccupa più di distinguere, evita di prendersi la responsabilità della stroncatura e mira piuttosto a diventare uno slogan da quarta di copertina. Poi però lo stesso Berardinelli non fa che sparare nel mucchio: la poesia fa schifo e la narrativa è solo ambizione e narcisismo. Si salva (forse) la saggistica. La critica promozionale è un genere in crescita. La critica a prescindere anche.

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