Milano, 25 ottobre 2017 - 22:54

Legge elettorale: il tribuno e l’ex presidente, appelli diversi alla democrazia

In piazza va in scena la gogna sul maxischermo. Le offese in romanesco di Taverna

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Dietro i volti contriti, è il giorno del sollievo. A Napolitano la legge non piace ma oggi la voterà: “Non sottovalutate Gentiloni – sussurra uscendo dal Senato -, ha subìto la fiducia ma ha mostrato autonomia su Bankitalia”; potrebbe restare premier con le larghe intese. A Grillo la legge fa orrore, ma gli consente di giocare con lo schema preferito: destra e sinistra unite contro di lui, che non governerà ma infiammerà le piazze. “Viviamo una crisi di sistema” mormora il presidente emerito. “Lo Stato non esiste più” grida il tribuno. Ognuno a suo modo, dicono la stessa cosa. Forza Italia gongola, il capogruppo Romani rivendica di essere il vero padre della riforma, sente la vittoria in tasca. Il Pd evita l’incubo di avere Grillo primo partito e vagheggia la rimonta sulla destra: «Le leggi elettorali riservano sempre sorprese — dice il capogruppo Zanda —; il Mattarellum l’abbiamo fatto noi e Berlusconi ha vinto due volte su tre; il Porcellum l’ha fatto Berlusconi e due volte su tre abbiamo vinto noi. Stavolta la legge l’abbiamo fatta insieme, non è un male». Ai grillini non par vero di poter gridare al patto contro di loro: oggi il Rosatellum, domani il governo Berlusconi-Renzi-Gentiloni. Si vota una fiducia ogni ora, i Cinque Stelle inveiscono contro la malcapitata ministra Finocchiaro, irridono il presidente del Senato Grasso con una gara di boccacce, poi guadagnano il Pantheon dove arringano i militanti con argomenti come questo, che si deve ad Airola: «Lo chiamano il Fascistellum, ma i fascisti dovrebbero offendersi, perché questi sono peggio dei fascisti!». Gasparri prende la parola in aula per rispondere all’elogio della Rivoluzione d’ottobre del professor Tronti: «La rivoluzione di cui Tronti si sente figlio oggi non ci consentirebbe di discutere la legge elettorale, perché le elezioni non ci sarebbero!».

I fogli

Napolitano parla da seduto. Legge fogli scritti grande, illuminati dalla lampada, a volte si aiuta con la lente di ingrandimento («ma è solo un vezzo» dice Sposetti che gli siede accanto e lo sostiene all’uscita). Con la Finocchiaro l’unico ministro ad ascoltarlo è Orlando. Quando critica la legge lo acclamano i bersaniani, quando annuncia la fiducia si scalda un po’ il Pd; lo applaude anche la grillina Lezzi, ma per sfregio. «È stato l’ultimo grande discorso di Napolitano» si commuove Zavoli, che ha due anni in più e si è appena sposato con una collega che ha quarantadue anni in meno. È stato il discorso di un parlamentarista che si pone da sempre il problema di rendere il parlamentarismo più efficiente, anche con una riforma elettorale che insegue dai tempi dell’incarico a Marini (gennaio 2008). Dalle sue parole si deduce la rottura con Renzi: le «forti pressioni» su Gentiloni (che Napolitano chiama «Gentilone»), i «personalismi dilaganti». Con un pericolo: che «la democrazia perda se stessa».

«La democrazia è morta!» urla Grillo a duecento metri di distanza. La piazza è piena ma metà sono turisti incuriositi: giapponesi che fotografano come diavoli, texani in bermuda; mendicanti storpi, un altro che mostra la piaga come san Rocco. Di Battista non ha chiuso occhio neanche stanotte a causa del piccolo Andrea che ha compiuto un mese: «Poi mi prendono in giro perché sbaglio comizio, vorrei vedere loro con un bambino che piange sempre!». Grillo invita i poliziotti ad accerchiare il Senato al posto suo. Poi si fa fotografare bendato accanto a Dibba e Di Maio col fiatone accorso dalla Sicilia («affidereste il futuro dei vostri figli a questi tre qui?» twitta il portavoce Pd Richetti). Si sperimenta una nuova tecnica di dileggio degli avversari: sul maxischermo compare la foto di un personaggio impopolare, spesso in posa buffa, e si scatenano orwellianamente i due minuti d’odio grillino, molto acceso in particolare per Gasparri. Gasparri quello vero ha ben altro per la testa: «Ma se Tronti è figlio della Grande Rivoluzione, allora è cugino di Pol Pot?».

Il divorzio

Il divorzio tra Renzi e Bersani è ormai definitivo, e anche sette senatori rimasti nel Pd votano contro: Chiti, Mucchetti, Manconi, Tocci, Micheloni, Ruta, Turano; l’accordo sulla legge elettorale appare loro l’anticamera del governo con Berlusconi; però restano in Aula per consentire il numero legale, senza bisogno dei verdiniani. I grillini votano con la benda sugli occhi, qualcuno va a sbattere, qualcuno sbircia. La senatrice Taverna con il suo lieve accento romanesco mette in dubbio la virilità della seconda carica dello Stato: «Grasso se hai le palle dimettiti!». Gasparri cita in francese: «Consiglio al professor Tronti di rileggersi Le livre noir du communisme, lui è talmente colto che potrebbe apprezzare l’edizione originale…».

I verdiniani

I verdiniani comunicano che invece sono stati determinanti, e hanno pure ragione: alla terza fiducia mancava un senatore di Alfano. In piazza il maxischermo dell’odio inquadra Mattarella, pure lui si prende la sua razione di fischi. Crimi chiede la parola per leggere il retroscena di Monica Guerzoni sul Corriere: «Romani dice che chiama Zanda tutti i giorni, pure la domenica…»; al suo fianco Airola si produce in un’imitazione di Gasparri. Si moltiplicano gli attestati di stima dei grillini verso Grasso: Cotti gli strappa in faccia il testo della legge, Giarrusso gli fa il gesto dell’ombrello. La folla sciama da piazza del Pantheon, oggi il Rosatellum diventa legge, la campagna elettorale può cominciare. Qualcuno ha avvertito Gasparri dei due minuti d’odio grillino: «Colleghi non è bello mettere le foto delle persone e indicarle al pubblico ludibrio, si parlava della Rivoluzione d’ottobre ma qui saltiamo a quella successiva, siamo alla Rivoluzione maoista!».

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