10 marzo 2018 - 22:32

Dimissioni Renzi, il giallo della lettera. La minoranza del Pd: «Non ha più i numeri»

Veleni, sospetti, candidati: lunedì, in Direzione, il Pd rischia la conta. E nel «parlamentino» cala il numero dei renziani. Delrio smentisce di voler correre per la segreteria

di Monica Guerzoni

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«Matteo si è dimesso, punto e basta». A sentire Ettore Rosato la direzione nazionale di domani, porte serrate a doppia mandata e niente streaming, filerà via liscia: «Chi mai dovrebbe scontrarsi, visto che le dimissioni di Renzi sono immediate e irrevocabili?». Ma i dem sono in ebollizione, veleni e cattivi umori scorrono sottotraccia e la velocità con cui i membri del «parlamentino» si vanno riposizionando rivela la tensione. «Vuole continuare la guerra?», è il quesito che assilla i non-renziani.

La lettera di dimissioni, intanto. Matteo Orfini ne ha verbalmente certificato l’esistenza, ma nessuno l’ha vista e gli oppositori si chiedono cosa mai ci sarà scritto. Il tenore della missiva aprirà o chiuderà i giochi in direzione, dove i numeri non sono più così blindati per l’ex capo del governo. Su 208 membri eletti con le primarie di aprile, in caso di conta Renzi può fidarsi ciecamente di una settantina di nomi. I numeri sono fluidi come un magma incandescente. E il problema, per i renziani, è che il fronte che grida «tutti a casa» è sicuro di avere la maggioranza. Tra franceschiniani, gentiloniani, orlandiani, cuperliani, prodiani, fedelissimi di Emiliano e ministri uscenti, gli antirenziani sono quasi un centinaio. Nella terra di mezzo, abitata da delusi che hanno perso il seggio o sono rimasti vittime della furia rottamatrice (Gozi, Zampa, Martella, Latorre), sta la vittoria o la sconfitta in caso di braccio di ferro. Una quarantina, compresi i renziani buttati al massacro in listini e collegi (Bini, Puglisi, Fanucci), sono i nomi che possono spostarsi e determinare l’esito dello scontro.

Il grosso delle truppe non—renziane risponde ai comandi di Dario Franceschini. Se davvero il ministro della Cultura non punta a un accordo per la presidenza della Camera, la sua AreaDem dovrebbe muoversi in accordo con Orlando, Emiliano e gli altri ministri che guardano a Gentiloni. Ma ieri Rosato, legato a Renzi quanto amico di Franceschini, ha detto che sarebbe «una scelta intelligente» da parte dei vincitori offrire al Pd la presidenza di Montecitorio: una poltrona che, malignano i renziani, piacerebbe assai al ministro. Resta da capire come si muoverà Delrio. «Se Graziano tiene, Renzi non ha i numeri», ripetono gli oppositori, che sospettano un certo attivismo del ministro dei Trasporti per fare il capogruppo alla Camera.

La minoranza si prepara a sfogare la rabbia per quella che Goffredo Bettini definisce «una sconfitta storica». Valerio Merola sottolinea la «scoppola» incassata da Renzi, che «si è fatto odiare in tutti i modi». Cesare Damiano, l’ex ministro di Cuneo sconfitto a Terni, arriverà «col bazooka» per accertarsi che si volti pagina: «Siamo passati dal tortellino magico al giglio magico e adesso direi basta. Il Pd ha bisogno di normalità». Maurizio Martina reggente fino all’assemblea nazionale e magari un «caminetto» che lo sostenga, ecco la normalità per gli orlandiani. E poi, come spiega Andrea Martella, braccio destro del Guardasigilli fatto fuori dalle liste, «entro un mese bisognerà fare l’assemblea nazionale che eleggerà il segretario, o deciderà i tempi di un congresso vero». Per la minoranza il candidato è Zingaretti, ma l’elenco degli aspiranti è lungo. Chiamparino pensa che Renzi «si debba mettere di lato». Emiliano non esclude di correre alle primarie: «Vediamo». Di Calenda si dice sia la prima scelta di Gentiloni. E di Delrio si vocifera che sia il candidato di Renzi: «Non esiste», nega il ministro. Altra smentita l’ha diramata Maria Elena Boschi, stufa di essere dipinta alla ricerca di poltrone: «Io chiusa notte e giorno al Nazareno? Falso». Veleni e sospetti, con Faraone che stoppa la presunta «autocandidatura» di Zanda a capogruppo e Barbara Pollastrini che vede all’orizzonte «una contesa tra leaderini». In questa rissa perpetua il tema del governo finisce sullo sfondo e Fassino tiene ferma la linea del Pd, mai con il M5S: «Non saremo la ruota di scorta»..

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