Milano, 18 ottobre 2017 - 21:43

Referendum Lombardia e Veneto, quando la Lega al governo portò pochi risultati sull’autonomia

Dalle varie dichiarazioni d’indipendenza alla devolution bloccata, ecco che cosa riuscì a fare il Carroccio quando sbarcò nelle stanze dei bottoni a Roma

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«Lombardia e Veneto saranno un paradiso», giurò mesi fa Bobo Maroni in un’intervista a Libero scommettendo su un trionfo al referendum di domenica: «Vedrete cose che voi umani…». Auguri: sul tema, infatti, veneti e lombardi (più ancora di altri italiani) sono stati spesso un po’ illusi. Al punto che certi slogan sembrano esser finiti in soffitta appena finita la campagna elettorale.

Le tasse sul territorio

Un esempio? Il progetto maroniano di trattenere in Lombardia «il 75% delle tasse». Obiettivo sventolato 13 volte nei titoli dell’Ansa «prima» delle elezioni del 25 febbraio 2013. Ma assai più raramente dopo. Fino a sparire quasi del tutto. E mai sollevato ufficialmente, per quel che se ne sa, con la richiesta ufficiale al governo di più autonomia sulla base di quell’articolo 116 («Ulteriori forme e condizioni particolari di autonomia... possono essere attribuite ad altre Regioni, con legge dello Stato, su iniziativa della Regione interessata...») invocato nel prossimo referendum. Deciso con l’idea che una spinta referendaria (sia pure costosetta...) potrebbe aver più peso. E magari essere poi spesa come un ammiccamento all’indipendenza...

Indipendenza & secessioni

Tutto legittimo, tutto regolare. Come ha detto Luca Zaia, «chi sostiene che la consultazione è una boiata insulta quindi anche i giudici costituzionali». C’è: fine. La ricostruzione di tutto il percorso, tuttavia, merita qualche riga di riepilogo. Occhio alle date. Nell’aprile 1996 Romano Prodi vince le elezioni: manco il tempo di avviare i lavoro e la Lega, a settembre, dichiara «l’indipendenza e la sovranità della Padania». «Nel giro di un anno o due arriveremo all’Europa delle Regioni», annuncia Maroni: «Poi suoneremo il rhythm & blues». Macché... Un paio d’anni dopo, fallita la secessione, il Veneto chiede un referendum, bocciato dalla Consulta, per «l’attribuzione alla Regione Veneto di forme e condizioni particolari di autonomia». Passano altri mesi e nel luglio 2000, con la sinistra ancora al governo e le elezioni politiche ormai in vista, parte una nuova richiesta: il Veneto chiede di gestire sanità, formazione professionale e istruzione, polizia locale. Ancora no dei giudici costituzionali per il significato implicito: «Non è consentito sollecitare il corpo elettorale regionale a farsi portatore di modificazioni costituzionali...».

Al governo

Mai paura: nel giugno 2001 nasce il governo Berlusconi con la Lega in ruoli chiave. Umberto Bossi, ministro alle riforme, garantisce: «Quando sei lì fai quello che vuoi. I ministri della Lega le riforme le fanno subito per subito». Quindi «entro l’estate ci sarà la devolution, poi metteremo ordine nello Stato centrale e alla fine arriverà il federalismo fiscale». Bum! «Subito per subito» passano quattro anni e quando il 16 novembre 2005, poco prima che scada la legislatura, è varata infine la «devolution» (poi bocciata al referendum), lo stesso governatore veneto Giancarlo Galan sospira: «Purtroppo manca l’autentica sostanza di ogni vero federalismo cioè quello fiscale». E il referendum per una maggiore autonomia? Boh... Disperso.

«Più autonomia»

Manco il tempo che torni a Palazzo Chigi la sinistra nella primavera 2006 e la giunta veneta, oplà, rivota a ottobre una delibera per l’«Avvio del percorso per il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni di autonomia alla Regione...» Un anno e intima l’«Avvio del percorso per il riconoscimento di ulteriori forme e condizioni di autonomia...». Pochi mesi e pubblica sul Bollettino Ufficiale la deliberazione n. 98 «Attuazione dell’art. 116, terzo comma, della costituzione per il riconoscimento alla regione del veneto di un’autonomia differenziata...». Macché: il governo di sinistra cade, torna la destra e Luca Zaia è ministro dell’Agricoltura. Ma quel benedetto referendum? Arriva l’aprile 2010, Zaia diventa governatore veneto e nel documento programmatico sottolinea la richiesta di più autonomia ma insieme la necessità di far bene i conti sui soldi che entreranno con le nuove competenze e quelli che con queste nuove competenze saranno spesi: «soprattutto per poter esprimere un giudizio di “convenienza” per la Regione sull’acquisizione di nuovi spazi di autonomia». Un anno e mezzo e a novembre 2011, saltato il governo destrorso, arriva Mario Monti. Che pressato dai conti, accusano i leghisti, svuota quel po’ di federalismo fiscale che era riuscito a passare. Senza peraltro un solo decreto attuativo. Manco uno!

Quel no (costituzionale) al «Veneto sovrano»

«Monti? Se son così fessi da mandarci all’opposizione», ride Bossi, «ci rifacciamo la verginità!» Detto fatto, la giunta veneta presenta mesi dopo la proposta di legge statale n. 16, ai sensi dell’art. 121 della Costituzione: «Forme e condizioni particolari di autonomia attribuite alla regione del Veneto ai sensi dell’art. 116, terzo comma, della Costituzione». Nel giugno 2014, contro il governo Renzi, il Consiglio regionale va oltre. E approva due leggi. Una indice un «referendum consultivo sull’autonomia». L’altra si spinge a proporre il quesito: «Vuoi che il Veneto diventi una Repubblica indipendente e sovrana? Sì o no?». Bocciata, ovvio. Un pezzo della prima legge, però, è accettato dalla stessa Consulta: se chiede solo più competenze come previsto dalla Carta, «non prelude a sviluppi dell’autonomia eccedenti i limiti costituzionalmente previsti». Ed ecco l’appuntamento di domenica.

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Proposte zero

Strada obbligata? Sì e no. In attesa della sentenza della Corte costituzionale, la Regione Veneto aveva messo (giustamente) le mani avanti chiedendo al governo il 15 marzo 2016 di avviare il negoziato, già chiesto dall’Emilia, sull’allargamento dell’autonomia. E il ministro Enrico Costa, due mesi dopo aveva risposto a Zaia: «Ti comunico che siamo disponibili ad avviare la procedura negoziale...». Facesse una proposta... Mai arrivata, che si sappia. Meglio il referendum. Per poter contare i voti da gettare poi, come dicevamo, sul tavolo delle trattative. Al fianco dei leghisti lombardi. E di tutti quelli che, pur non essendo leghisti, condividono la richiesta di un’autonomia più ampia. Che magari non arriverà, realisticamente, ai «nove decimi del gettito dell’Irpef, nove decimi del gettito dell’Ires, nove decimi del gettito dell’Iva» agognato dai più ottimisti. Però... Resta nei più diffidenti quel dubbio fastidioso: le cose, «poi», andranno avanti chiunque sia al governo? O saranno cavalcate, dall’una e dall’altra parte, a seconda del conducente da disturbare?

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