chi ha preso il posto del lupo cattivo
26 ottobre 2017

Che cos’è la paura?

Una volta ci spaventavano i mostri delle fiabe. Adesso l’immaginario del terrore, dalle locandine dei film e dalle vetrine di Halloween, entra nelle nostre case senza creare nessun tipo di angoscia, perché è la realtà ad alimentare i nostri incubi. Soprattutto quando riguardano i figli

Un pipistrello, solo un pipistrello, biascico nel buio rivolta alla mia migliore amica che chiede cosa sia quel rumore. Siamo al mare, dormiamo nello stesso letto. Lei si alza, vorrebbe accendere la luce, e se ci viene addosso, si impiglia nei capelli? Non fa niente, taglio corto io girandomi dall’altra parte. Mai avuto paura di pipistrelli, topi, calabroni, altezze, spazi vuoti, spazi chiusi. Mai avuto crisi di panico in vita mia. Posso dormire da sola in una casa nel bosco, camminare di notte su una strada deserta. Sono in grado di infilarmi in una botola all’Aventino, saltare giù in una catacomba segreta e, nel momento in cui da sopra chiudono la botola, sono capace di non pensare che mi potrebbero dimenticare qua sotto. Esattamente il coraggio trasmesso a mia figlia che con orgoglio guardo schiacciare scorpioni, affrontare un nugolo di vespe, prendere l’amichetta per mano, rassicurandola che il grande cane che blocca loro il passaggio è buono.

«Ah, i bambini di oggi» si lamenta Waternoose di Monster & Co «non si lasciano spaventare come una volta!». L’umanizzazione del mostruoso quale antidoto della paura è sempre esistito. Da Apuleio ai fratelli Grimm, tuttavia è con E.T. - L’extraterrestre di Steven Spielberg (1982) che si trasforma in un vero e proprio filone. Il mostriciattolo alieno dimenticato dall’astronave si rivela un cucciolo indifeso con la nostalgia di casa («E.T. telefono casa»), il cuore bioluminescente che si accende per le emozioni, e il potere di far volare le biciclette dei bambini per fuggire dagli adulti cattivi. Ed è proprio al cinema che si compie il ribaltamento completo di mondo: in Monster & Co, film d’animazione della Pixar (2001), a cui fa seguito Monster University, a spaventare sono gli umani. «Non c’è niente di più tossico e letale di un cucciolo umano. Basta un suo tocco e siete morti!», mette in guardia sempre Waternoose, ecco perché Boo, la bambina precipitata nel loro mondo, intimorisce tanto. «Non toccatela!» Tranne poi scoprire che non è pericolosa come pensano, anzi: guarda, gioca a nascondino! E com’è dolce! Dunque i mostri sono simpatici, Halloween si festeggia anche in Italia, e mia figlia da agosto comincia: fantasma o vampiro? Se la scelta ricade su vampiro, il 31 ottobre scoppia il litigio. «Anche sugli occhi!», ordina lei. «Mica mangiano con gli occhi», provo a oppormi io. Perché nonostante sia una maschera, mi pare di cattivo gusto eccedere col sangue finto, se non fosse che la mia bambina urla drammatica: «Perché devi rovinarmi anche Halloween, perché?».

L’intero immaginario del terrore campeggia nelle vetrine dei negozi, entra nelle nostre case, e non ci crea più nessun tipo di angoscia. «Morirete tutti!», balza mia figlia vampiro in salotto. «Voi morirete!». E io, senza neanche alzare gli occhi dal computer, sospiro: «Puoi andare di là che sto lavorando?». «Morirete, morirete», si allontana lei, «morirete...», dal fondo del corridoio. Oggi succede che l’immaginazione sia molto più rassicurante della realtà. Poiché alle fobie della mente c’è soluzione, come racconta Robert Sheckley in Fantasma V (La settima vittima – edizione Nottetempo – traduzione di Moira Egan e Damiano Abeni). Qui i mostri prendono la forme delle fantasie dell’infanzia: l’Artiglio a Strisce Viola, il Pedinatore, il Borbottone, solo che il protagonista ormai adulto non li riconosce, è il fratello ad avvisarlo: «L’hai inventato tu! Ti ricordi? Avevamo piú o meno otto o nove anni, io, te e Jimmy Flynn». Così It di Stephen King, il demonio che per spaventare appare a ciascun bambino nelle fattezze dei loro incubi: a Ben come pagliaccio, a Eddie come lebbroso, a Mic come uccello gigante. Eppure da questi mostri c’è difesa, insegna Sheckley, basta tirarsi la coperta sopra la testa, soluzione estrema per abbattere anche l’ultima creatura malefica che pare resistere a tutto, anche alla pistola ad acqua.

Sconfitto l’intero immaginifico dell’orrore cosa rimane a minacciarci? Sui grattacieli di New York non si è rapiti da King Kong, ma uccisi da un attentato terroristico. Immagini reali che si sostituiscono a immagini di finzione sullo stesso skyline. Allarme rosso, donne bambini, rimanete in casa.
Insomma, la più grande minaccia è la vita reale. Lo dimostra Ignatius O’Reilly, straordinario protagonista di Una banda di idioti di John Kennedy Toole – edizione Marcos y Marcos (traduzione Luciana Bianciardi). Trentenne obeso, genio – a suo dire – Ignatius passa le giornate chiuso in camera, senonché la madre lo spinge a cercare lavoro. L’impatto di Ignatius con la realtà è disastroso, inutile protestare, inveire contro il sistema, contro una società governata «dalla mancanza di teologia e geometria». Talmente inadatto alla vita – «Il mio essere ha bisogno degli elementi proustiani per estrinsecarsi» – Ignatius non si accorge che la sua rappresaglia sta per finire nel nulla, sarà lui a perdere. Ma se Ignatius può chiudersi nuovamente in casa, il suo autore no. Nel 1969, a soli 32 anni, John Kennedy Toole si toglie la vita. Il romanzo viene pubblicato undici anni dopo grazie alla madre che ritrova il manoscritto tra le cose del figlio (altra sovrapposizione drammatica col romanzo: il rapporto simbiotico madre-figlio). Dopo molti rifiuti da parte degli editori, la donna non perde speranza e continua nella sua missione, quasi un modo per mantenere in vita il figlio, che in questa esistenza artificiale viene alla fine pubblicato (1980), riceve il premio Pulitzer postumo (1981), e riscuote un enorme successo. Ovvero: viene acclamato in assenza dall’umanità che lo ha portato al suicidio. Allora: allarme rosso, non uscite di casa. Fuori c’è lo smog, il ciclone, l’assassino seriale, l’assassino occasionale, lo stupratore nordafricano, lo stupratore italiano, lo tsunami, il terrorista.

Dopo aver attribuito agli esseri umani ogni genere di mostruoso (da Meno di zero ad American Psyco), in Lunar Park (Einaudi – traduzione di Giuseppe Culicchia) Bret Easton Ellis può permettersi di animare un pupazzo di peluche perché è chiaro – nel codice della sua letteratura, di traslato in traslato – che il pupazzo sia la paternità. Anche per Ellis quindi il pericolo è fuori, nello specifico fuori dalla sua prolungata giovinezza interrotta dall’arrivo dei figli. Per poi accorgersi invece che i figli hanno sì a che fare con l’apprensione, ma in un modo più complesso di quello che pensava lui, magari fossero semplice insidia. Maternità e paternità si compiono nel momento in cui collochi il bambino rispetto all’angoscia, ovvero il pupazzo di peluche è genitorialità, e minaccia alla genitorialità; il figlio, predatore, e possibile preda. Coi figli l’ansia si sposta, anche per te che fin qui hai dormito sola in una casa nel bosco, hai camminato di notte su una strada deserta, sei scesa in una catacomba romana mai pensando per un solo istante di poter morire dimenticata sotto terra.

«Ho paura che non torni più», dice mia figlia. «Ho paura che ti fai male, che ti prendono in giro, ti rapiscono. Ho paura che muori, mamma».
L’idea che esista una persona per cui sono indispensabile di colpo mi fa temere ragni, treni, automobili, aerei, viaggi, terremoto, altezze, buio, luce, pipistrelli. Quando dalla finestra della casa in campagna entra un pipistrello, io mi sveglio: potrebbe precipitare su mia figlia che dorme, impigliarsi nei suoi capelli – poco conta che sia una leggenda – aggredirla, ferirla.
Mi alzo dal letto, prendo in braccio la bambina e, senza accendere la luce, rischiando d’inciampare a ogni passo, raggiungo il salone, dove la deposito sul divano, per poi tornare indietro, chiudere la porta della camera da letto, imprigionare il pipistrello, e così mettere in salvo mia figlia. Che resti a casa, nella stanza più riparata. Che non esca, cambio idea come il Bret Easton Ellis di Lunar Park il quale solo verso la fine comprende il vero legame tra paura e figli. Che i nostri bambini rimangano al sicuro, che sia in nostro potere evitare loro qualsiasi sofferenza, fosse anche un amore non corrisposto.

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