storia di copertina
1 marzo 2018

Perché adesso non stiamo tutti zitti?

In campagna elettorale si è urlato molto e capito poco, come in un confuso talk show. Abbiamo perso il valore del silenzio, che è forza, equilibrio, capacità di stare con gli altri. Ora l’italia ha bisogno di un po’ di silenzio

E dopo tanto rumore avremo un po’ di silenzio? La velenosa caciara che abbiamo chiamato fino a oggi campagna elettorale può dirsi placata? Avremo finalmente la pace per capire che cosa va fatto e che cosa non è andato? Ritroveremo un minimo pensiero, che anche solo ci insegni quanto poco si è pensato? Il pensiero, infatti, non c’entra col rumore. Il rumore, ci dice Dante, è cosa d’Inferno. Nel suo inferno, non a caso, si sbraita in molteplici lingue e si fan volare fragorosi, meritatissimi sberloni. Mai quiete, con tutto che gli spiriti dovrebbero essere incorporei. Immaginarsi che cosa avrebbe fatto il sommo poeta dei nostri cacofonici, sgrammaticati urlatori in carne e ossa. Li avrebbe eletti a portavoce – è il caso di dirlo – della dannazione universale? O buttati dritto in bocca a Lucifero, perché i loro strepiti esprimessero almeno una reale sofferenza?

Il bel vocabolo “silenzio” Dante lo utilizza solo nella terza cantica, quella delle anime beate. Il concetto che indica non è solo il contrario di molestia acustica, ma si associa a idee come contemplazione, letizia, armonia. Quello del silenzio è, appunto, valore musicale: è l’assenza che struttura artisticamente, pausando, il flusso dei suoni, che crea ordine e disegno, che amministra il tempo. In uno dei più antichi frammenti della lingua latina che ci siano arrivati (magnifico Ennio) il silenzio indica il pacificato assetto della volta celeste. In quel manifesto plurifunzionale che è L’infinito di Leopardi, significa l’intuizione di una totalità che mette in rapporto diretto passato e presente; che libera il qui e ora dal cappio dell’attualità.

Campagna elettorale o no, nelle nostre vite ce n’è sempre meno, di silenzio. Lo spazio pubblico, specie se cittadino – e non penso ai percorsi del traffico automobilistico –, sta mutandosi in un’arena di chiassi incrociati, multidirezionali, dove gli impulsi elettronici e le attività delle corde vocali collaborano nella spartizione del compito di irradiare il massimo disturbo possibile. Viviamo nell’alto volume degli infiniti, variamente modulati bip, delle voci che strillano in microfoni, delle ubique pubblicità teletrasmesse, dei logorroici altoparlanti. Nei vagoni della metropolitana di Milano è un’impresa ormai concentrarsi nella lettura del giornale o di un libro, perché una registrazione recita litanicamente nomi di fermate e di linee, in italiano e in simil-inglese, con parodico, inutile zelo. Entri in un bar e ti colpisce un cavallone di musicaccia. Vai a comprarti un paio di jeans, e la musicaccia è ancora più burrascosa e illogica. Un’altra realtà infernale è il vagone ferroviario. Fino a qualche anno fa si sceglieva la prima classe per evitare disturbi fonici. Poi la prima classe si è rivelata peggiore della seconda, perché i più intensivi frequentatori di telefonini erano proprio i meglio salariati. Ora non c’è differenza tra la prima e la seconda: tutti parlano, parlano ad alta voce, e non sempre di faccende urgenti; a tutti squilla qualche aggeggio elettronico; alcuni guardano film senza ricorrere agli auricolari; i bambini giocano con strumenti che producono frastuono…

Insomma, abbiamo fatto la fine dell’ariostesco angelo Michele che, avendogli Dio comandato di andare in cerca del Silenzio, non riesce a beccarlo da nessuna parte. A Oxford, dove trascorro parecchi mesi all’anno, si sta un po’ meglio. Però anche lì è sempre più difficile trovare luoghi pubblici in cui ritirarsi con i propri pensieri. Pare che ormai un po’ di tranquillità te l’assicurino solo le biblioteche. Per questa ragione le loro sale di lettura – mi informano gli amici bibliotecari – sono sempre più desiderabili anche per chi non deve leggere, ma ha solo bisogno di un posto fuori casa in cui riflettere e lavorare in pace. Immagino che vada così anche altrove. In certi posti della terra sono sorti e stanno sorgendo perfino rifugi del silenzio: isolamento, serramenti doppi o tripli, corsi di meditazione e di yoga. Ne hai in California come sull’Himalaya o nel Nord Europa, dove per altro la sola natura è ancora capace di offrire servizi assai più efficienti, e per una spesa di gran lunga più competitiva.

Interviene in tali e tante manifestazioni di baccano una buona dose di protagonismo. Occorre mettere in conto, però, anche molta inconsapevolezza. Il rumoroso ha sempre meno coscienza di esserlo. Ciascuno di noi, per cultura e per natura, ha uno spazio sonoro privato. Ricordate la vergogna istintiva di parlare davanti a un gruppo che si prova da piccoli? Il silenzio dei bambini che giocano da soli, anche quello, ve lo ricordate? Il rumoroso un simile spazio iniziale, anziché salvaguardarlo, pur con gli inevitabili aggiustamenti che impongono l’avanzare degli anni e la necessità del commercio sociale (no, la politica non è mai una scusa), lo confonde con l’aria che respirano gli altri. Non si tratta solo di cattive maniere, di disrispetto per il prossimo: si tratta di negazione di sé. Il rumoroso offende più di chiunque altro la propria persona; si priva della sua individualità, consegnandosi all’indifferenziato e alla solitudine. Diresti, infastidito dall’ennesimo trillo del suo cellulare, che quel viaggiatore crede di esistere solo lui. Invece, lui non sa nemmeno più di essere lui. Si è fuso con una totalità che è un niente, perché non riconoscendo più i confini di sé non può ammettere quelli di altre persone. Il rumoroso non ha più casa, non sa più che cosa sia una casa, proprio perché non distingue il fuori e il dentro, il sé e il non sé. Gli mancheranno, pertanto, anche i rudimenti dell’ospitalità. Ignora che cosa significhi stare in compagnia. Sarà un pessimo politico.

Siamo tutti vittime della costrizione a udire; tutti torturati. Le statistiche dicono che la sordità è in continuo aumento. Oggi si perde l’udito assai prima della tarda età. Però, molti di noi la tortura la cercano, scambiandola per la condizione normale. Confondono il silenzio col mutismo, con la privazione della parola, perfino con la morte (che non è silenzio ma distruzione) e lo disprezzano. Non sanno che c’è una lingua assai più importante, quella del pensiero, e tale lingua parla nei cuori e nelle menti, dando energia e capacità vitale.

Mi viene in mente una certa signora tedesca... la incontrai qualche anno fa al monastero di Fonte Avellana (sulla cui facciata, guarda un po’, sono riportati alcuni versi del Paradiso dantesco, che celebrano proprio Fonte Avellana). Il luogo è stupendo, quietissimo, raccolto tra le colline marchigiane. Non un palo della luce, non un cartellone pubblicitario. Il primo paese dista parecchi chilometri. Solo un gran vento la notte. Ma il vento non è rumore. Mi ci ero ritirato dopo qualche fatica. Avevo anche voglia di passare un periodo in un ambiente ignoto, che mi imponesse abitudini e ritmi diversi dai miei. Fui felicissimo di scoprire, una volta arrivato, che occorreva osservare la regola del silenzio. Si mangiava tutti quanti insieme, una sessantina di ospiti, uomini e donne, italiani e no, dai quaranta in su, e non ci si doveva dire una parola. Chi aveva avuto modo di scambiare due chiacchiere all’inizio, buon per lui. Gli altri, me incluso, si arrangiassero. Ci si passava il pane, le brocche dell’acqua e del vino, il cestino del pane, e quel passarsi le cose, che nessun commento verbale accompagnava, assumeva una nuova pienezza, una nuova gentilezza («un atto che parla con silenzio», ha scritto Petrarca). Gli sguardi stavano per le frasi, ed erano più delle frasi.

Così, quando ci si incrociava sulla salita che portava alle celle, ci si salutava con minimi segni del corpo, con sorrisi, che col passare dei giorni erano sempre meno (auto)ironici, sempre più sicuri di significare qualcosa di vero. L’attenzione crebbe, diminuendo l’impulso ad aprire la bocca. Quante cose in più si vedono quando si tace! Quanto ci si comunica che penetra subito la mente senza contorcersi giù per il flipper dell’apparato uditivo! Col passare dei giorni, certo, alcuni cominciarono a cedere all’impazienza. Il momento dei pasti si trasformò per alcuni in un’esibizione di arte mimica (molto rozza, occorre dirlo). Io stesso, con qualche occhiolino o fremito delle narici, feci amicizia con un signore, sul cui conto mi mancavano le più basilari informazioni. Però ci eravamo simpatici e sentivamo di avere una qualche affinità, come mesi dopo mi avrebbero confermato alcune chiacchierate, fuori da Fonte Avellana… Finché la signora tedesca che ho già ricordato sbottò. Disse che non ne poteva più, Genug! E si aspettava che altri si unissero al suo urlo liberatorio (il cliché dell’italiana chiacchierona per una volta era infranto). Invece, quel Genug! non ebbe seguito. Indignata, ripartì per i regni del rumore quello stesso pomeriggio.

Il silenzio è una delle grandi questioni della nostra cultura fin dall’antichità. Gli egizi si erano inventati addirittura un dio del silenzio, Arpocrate, figlio di Iside e Osiride (sovrapponibile a Horus), nato prematuramente, e questo dio ebbe culti e omaggi letterari (bastino i nomi di Catullo e di Plutarco) anche nel mondo greco-romano, dove lo si indicava con il nome Sigalione. Le statue lo rappresentavano in atteggiamento tipico, rimasto tradizionale: con l’indice alzato davanti le labbra, probabilmente per segnalare il suo stato infantile (“in-fanzia” è la mancanza di parola, appunto, il silenzio originario). E il silenzio era legge per Pitagora e per altre sette mistiche, e anche per varie correnti del cristianesimo. Senza silenzio non ci sarebbero l’arte – in qualunque forma ed espressione –, la filosofia, la scienza. Non ci sarebbe l’amore. Silenzio non è semplicemente star zitti: è voler ascoltare; e poi, dopo il volere, ascoltare.

A tutti sarà capitato di osservare un minuto di silenzio. A Oxford io e i miei colleghi smettiamo ritualmente di parlare per un minuto nelle riunioni di facoltà se c’è da ricordare qualcuno mancato da poco. In quel breve intervallo la mente diventa sempre più sensibile alla presenza degli altri: il pensiero della morte si trasforma in certezza della vita, confondendosi con il respiro stesso dei silenti, e il ritorno alla parola, desiderato dapprima e poi quasi paventato, ha qualcosa di violento e deludente. Il silenzio, infatti, è cosa attiva, non passiva. È forza, autosufficienza, equilibrio. È la voce dell’attenzione e della soggettività: ottenere un silenzio oggettivo, un silenzio totale, infatti, è impossibile, come attestano i fisici, anche nelle condizioni più artificiali. E quando ci creiamo il nostro silenzio ascoltiamo il cuore e il corpo, nostro e altrui; e conosciamo la natura, i paesaggi interiori, e riduciamo le occasioni di conflitto. Via schiamazzi, fraintendimenti, pretesti per lo scontro. Via permalosità e aggressività. Una proposta per i signori che ci amministrano o vorrebbero amministrarci: se la politica cominciasse a occuparsi dei suoi programmi in perfetto silenzio? Se si impegnasse in qualche nuova, antica attività? Pensare, per esempio.

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