intervista
26 marzo 2018

Gabriele Lavia: «Prima del voto avremmo dovuto rileggere Re Lear»

«Il teatro è una piccola rappresentazione del nostro delirio politico», dice l’attore e regista. A 7 spiega la bravura di Beppe Grillo, plaude le capacità interpretative di Salvini, rilegge la caduta di Renzi. Poi sintetizza: «Shakespeare aveva capito tutto»

Foto di Filippo Manzini Foto di Filippo Manzini

È seduto sul divanetto in velluto rosso di un tavolino del caffè Pepino di Torino. Gabriele Lavia è uno dei grandi attori e registi del teatro italiano: è stato Amleto e Macbeth, Edipo e Galileo. Ora dirige e interpreta, nell’adiacente teatro Carignano, una splendida messa in scena: Il padre, capolavoro di August Strindberg del 1887 che racconta il dramma di una famiglia borghese con lo scontro finale fra un marito – capitano di cavalleria – e la moglie. È in anticipo di mezz’ora all’appuntamento (io solo di un quarto d’ora): non mi è mai capitato in tanti anni di interviste. Prima di avvicinarmi a lui, al banco colgo la conversazione di cinque ragazze sul risultato delle elezioni: «Ditemi chi li ha votati!», alza la voce una di loro, evidentemente elettrice del Pd. «Mi sembra di rivivere la disfatta del ’94, quando vinse Berlusconi», aggiunge, sconsolata. È un terremoto, commento con Lavia, ci vorrà tempo per metabolizzarlo. Naturalmente, partiamo da qui.

Lei non guarda mai allo spettacolo della politica come fosse una grande rappresentazione teatrale?
«In realtà è il teatro a sembrarmi una piccola rappresentazione del nostro delirio politico. Di questa enorme lotta diventata caos. “Caos” viene dal greco, vuol dire “spalancato”, “senza ordine”. O, come dicevano a Roma quando il cinema apriva le porte e tutti entravano correndo, “Annamo, a li mejo posti!”. Il suo contrario è “cosmos”, altra parola greca, che vuol dire “ordinato”, “abbellito”. Nella nostra vita politica vediamo un disordine da cui pare non si riesca a uscire, e nemmeno a trovarne il bandolo. I 5 Stelle sono di destra? Sono di sinistra? Anche per loro aveva ragione Giorgio Gaber! Sono di centro? E la Lega, di che cos’è? Esiste il Partito Comunista, o qualche rammemorazione di esso? Il Pd è la Dc, di nuovo? Non lo sanno nemmeno loro. Ma si deve passare dal caos all’ordine del cosmos».
Come si fa?
«Bisogna studiare. Cosa cambia, tra l’uno e l’altro? L’inquadratura. Il punto di vista. È come quel quadro meraviglioso di Holbein, Gli Ambasciatori. Per vedere il vero senso del quadro, non lo devi guardare di fronte, ma ti devi mettere di lato – alla tua destra – in modo che quella macchia strana tra i due ambasciatori sia visibile per ciò che è: un teschio. Nessuno capisce come il geniale pittore di Enrico VIII abbia avuto questa folgorazione. Questa tecnica si chiama “anamorfismo”. Ora viviamo in un mondo anamorfico, dobbiamo metterci nella posizione giusta Come fa Amleto: “Qualcosa è marcio nello Stato di Danimarca”. Al posto di “Danimarca” uno ci potrebbe mettere qualunque altro nome e andrebbe bene lo stesso... Tutto il potere, ci dice, non è che una rappresentazione marcia».
C’è del marcio in Italia. Poteva essere uno slogan per le forze politiche che hanno fatto leva sulla rabbia degli elettori.
«C’è rabbia, però a volte credo che la gente si voglia dare la zappa sui piedi... Ma io dico così perché il mio mondo è morto. Non c’è più».
In che senso?
«Io sono sempre stato di sinistra. Ma sinistra-sinistra! Ho sempre votato per quello che era il Partito Comunista. L’ultima volta, ho votato per il Pd (questa volta non ha votato, con rammarico, perché in tournée, ndr). Per tradizione. Certo, il Pd non è più di sinistra, per una evoluzione storica, ma l’uomo invecchiando è difficile che evolva... L’altro giorno è venuto a teatro Achille Occhetto (segretario Pci e poi Pds dall’88 al ’94, ndr). Mi ha abbracciato. Ci siamo detti: “È finito tutto!”».
Ma il “suo mondo” com’era?
«Il mio era il mondo rappresentato da Giorgio Strehler. Il più grande regista della storia del teatro. Ho visto le prove di tutti i suoi spettacoli. Aveva un’amicizia particolare per me, abbiamo parlato a lungo, a volte».
Strehler con Paolo Grassi nel ’47 fondò a Milano il Piccolo Teatro.
«Paolo Grassi dopo ogni mio spettacolo – veniva a vederli tutti – mi mandava una lunga lettera di complimenti e incoraggiamenti. Alla fine, ecco la cosa magnifica, scriveva i suoi suggerimenti: “Ora mi permetto: punto 1, punto 2... punto 65…”. Tutto ciò che secondo lui avrei dovuto rivedere. Ma io ero un ragazzo, lui era Paolo Grassi! E con che civiltà si rivolgeva a me! Lui e Strehler avevano un’idea morale, innanzitutto, e politica, precisa: il teatro serve a migliorare la società in cui si manifesta. Come? Rappresentando, di fronte agli occhi di questa società, se stessa. Del resto, così è nato il teatro, nel popolo di pensatori che furono gli antichi greci. Questo è il vero teatro. Shakespeare faceva vedere, davanti a una piccola società di corrotti e assassini, l’assassinio e la corruzione. Ecco il profondo sentimento politico e morale del mio mondo: e dico “politico-morale” perché la politica non può essere disgiunta dalla morale altrimenti non è politica, cosmos, ma è caos, è a li mejo posti».
Un teatro che rappresenti la società. Fondatore/garante del primo partito d’Italia, il Movimento 5 Stelle ora a guida Di Maio, è un attore: Beppe Grillo.
«Anni fa, in un suo spettacolo, faceva una mia imitazione nel Riccardo III. Da farsela addosso dal ridere! Mi imitava pronunciando la battuta: “Il mio regno per un cavallo”!».
Com’è lui?
«Una persona intelligente e spiritosa. Ha preso una strada diversa dalla mia, ma non mi sento di dare giudizi. Però il suo è un modo un po’ troppo esasperato, gridato di fare politica. Non si può sempre strillare, sia pure con grandissima abilità. Ma mi è evidente tutto il professionismo d’attore che c’è dietro il suo modo di parlare, di muovere le mani: prima la destra, poi la sinistra, mai sempre una come i dilettanti, sempre al tempo giusto come un attore consumato, perché lui è un attore consumato. Posso permettermi di dargli solo un consiglio? Ora è un po’ troppo, e si vede. L’attore più grande è quello che non si vede. Ma tanto non appartiene al mio modo di vedere il mondo. Ormai la mia visione del mondo appartiene a me, forse a Occhetto. Ho 75 anni, sono troppo vecchio!».
L’altro vincitore è Matteo Salvini. Come lo vede, nel teatro della politica? «L’ho conosciuto personalmente. Quando parla di politica mi è antipatico, nella vita invece è simpatico, buono e, a suo modo, timido. Una volta, a una trasmissione tv, gliel’ho detto: “Perché quando fa politica recita la parte dell’antipatico?”. Evidentemente ha scoperto, come Grillo, che la politica gridata vince. Bravo!, allora».
Ottima interpretazione anche la sua, quindi.
«Io però, con buona pace di Salvini, credo che il nostro Paese abbia una grande fortuna: subiamo la meravigliosa violenza antropologica della migrazione. La nostra orribile, brutta razza col culo basso è destinata a migliorarsi attraverso la dolorosa – ogni cambiamento lo è – e felice migrazione, mai finita, dall’Africa, terra da cui viene l’Homo Sapiens. La razza sarà migliorata. Ci metteremo tanto tempo. Quando sento dire “dobbiamo regolarizzare…”. Ma cosa vuoi regolarizzare! È come regolarizzare gli spermatozoi! Noi siamo più piccoli degli spermatozoi rispetto all’universo! Non la può fermare nessuno».
E Berlusconi? Pienamente dentro la metafora teatrale, si è appena definito «il regista del centrodestra».
«Di Berlusconi tutto si può dire, tranne che non abbia saputo fare la sua professione. Da un punto di vista antropologico è un fenomeno. La sua è la maschera di un grande attore, come può essere la maschera di un Buster Keaton (celebre attore del cinema muto americano, ndr). Grandi maschere, fisse, anche inquietanti. Però è innegabile, è una forza. Non so che vitamine prenda, ma certo devono essere delle belle bombe! L’ho conosciuto, moltissimi anni fa: voleva che mi occupassi del suo teatro, il Manzoni, a Milano. È una persona gentilissima, molto corretta. Ricordo che gli diedi anche un consiglio...».
Quale?
«Andò così. Quando risposi di no alla sua proposta, aggiunsi: “Che vuole, la vita è fatta di treni che si perdono”. Lui, di rimando: “Un treno si può perdere, un volo interstellare no!”. “Pazienza! Però vorrei suggerirle una cosa: nei suoi telegiornali metta il controluce.” “Il controluce? Che cos’è?”. Spiegai: “Sa qual è la differenza tra la pornografia e l’erotismo? La pornografia ha la luce davanti, l’erotismo ha la luce dietro. Lei vuole essere pornografico o erotico?”. “Erotico!”, rispose. E fece mettere il controluce al tg. Chissà se se lo ricorda».
E la caduta di Renzi? È grande o piccola? Una tragedia vera?
«È una grande caduta. Perché? Renzi ha commesso un errore. Ma piccolo, eh! Ha personalizzato il referendum, e in questo Paese tutti desiderano mandare via tutti! Perché? Non si sa. “Intanto li mandiamo via”. Shakespeare la sapeva più lunga di noi: “Cinna! Cinna! Ammazzatelo! Lui è Cinna, il congiurato!”. (Lavia recita queste battute dal Giulio Cesare, ndr). “No, no, io non sono Cinna il congiurato, sono Cinna il poeta!”. “Eh va be’, allora ti ammazziamo per i tuoi cattivi versi!”. Nella folla, le persone non capiscono più nulla. Tra “Sì” e “No”, questo Paese vota sempre “No”. Perché bisogna ammazzare Cinna! Ma io sono il poeta! Non importa! Ce l’ha spiegato così bene Shakespeare, l’uomo probabilmente è fatto in questo modo. Lui ha commesso un errore: piccolo, però determinante».
Cosa le ricorda la rivalità personale tra Renzi e D’Alema, da cui entrambi sono usciti sconfitti?
«Credo che tutti e due avessero delle ragioni ideologiche – al di là di antipatie personali, che posso anche giustificare, da una parte e dall’altra. Due galli in un pollaio non ci possono stare. I risultati dicono che è stato un errore. Ma rimanere uniti è sempre faticosissimo. Io sono sposato: è una guerra! D’altra parte uno dei filosofi più grandi, Eraclito da Efeso detto “l’oscuro”, diceva: “en diaferon eautò”, “Uno diviso in due è se stesso”, uno portatore del doppio. Nel momento in cui non c’è la tua contraddizione all’interno di te, tu sei morto».
Diceva che il suo mondo è morto: e il teatro?
«Il teatro è la mia vita. Ma ormai vince la burocrazia».
In che senso?
«Le faccio io una domanda: in quale parte del teatro facciamo il teatro?».
Sul palcoscenico...
«...e in platea. “Sul” palcoscenico e “in” platea. Due cose apparentemente semplici, ma di profondità abissale: perché “sul” e “in” creano l’abisso. A un certo momento però è stato deciso che tutta questo non fosse importante quanto l’amministrazione. E l’ufficio, anche se esiste perché c’è qualcuno sul palcoscenico e qualcuno in platea, ama se stesso. Chi sono i poveracci di questa storia? Gli attori. Negli uffici hanno quindici mensilità; l’attore, che è un elemento infimamente sottopagato – lasci perdere che io sono vecchio e un pochino più pagato – che lavora per poco tempo all’anno. Adesso vogliono anche fare il contratto a intermittenza, nel senso che se tu lavori una settimana in un teatro e poi hai tre giorni di buco, non ti pagano quei tre giorni. Tutte le conquiste dei lavoratori di questa categoria di discriminati pezzenti che sono gli attori non esistono più».
In fondo il quadro ricorda ciò che molti italiani pensano sia successo nella società: l’avvento di burocrati/politici potenti che hanno preso il sopravvento sulla gente.
«Non c’è dubbio, è così. Nel mio mondo, Paolo Grassi si sarebbe ribellato a una cosa del genere». Qual è il suo ricordo più bello, del suo mondo? «Il Re Lear, al Piccolo, con Strehler, ’72. Aveva rinviato la prima per mesi, non si andava mai in scena. Non eravamo pronti! Non sapendo più a che santo votarsi, alla prova generale finse un colpo apoplettico».
Davvero?
«Scappò nella hall del teatro fingendo di morire. Punto. Nessuno lo seguì. Punto. Tranne il barista del Piccolo, che andò e vide che lui guardava se c’era qualcuno che l’avesse seguito. Poi entrò in teatro e disse: “Porco D..”. Andava in chiesa, ma era un grande bestemmiatore. “Potevo morire”. S’era accorto che nessuno, nemmeno i più fidi, l’aveva seguito. Ma aveva ragione lui, non eravamo pronti».
Che successe?
«La prova generale cominciò alle sette di sera e finì alle sette del mattino dopo. E avevamo provato solo il primo atto dei cinque del Re Lear. Andammo a casa convinti che sarebbe stato un disastro. La sera, lo spettacolo comincia sotto i peggiori auspici. Il sipario non si voleva aprire. Io stavo in quinta con Beppe Pambieri, ci sembrava un segno del destino. Poi vidi il dito del direttore di scena che riuscì a sganciare il sipario. Finalmente entrò Tino Carraro-Lear. Doveva dire: “Noi oggi a tutti vogliamo rendere nota la nostra lungamente ponderata decisione. La mappa, qui! Sappiate che abbiamo deciso di dividere il nostro regno in tre parti”. Una per ognuna delle figlie. E Tino disse: “Abbiamo deciso di dividere il nostro regno in …”. Non si ricordava il tre! Finché, finalmente, parlò: “In due!”. No!! Dissi a Beppe: “Andiamo in camerino. Siamo noi che portiamo sfiga!”. Siamo scappati, dicendo: “Non riusciremo mai a finire”».
Come andò?
«Fu un trionfo. La fila alla biglietteria da via Rovello arrivava al Duomo. Senza quel teatrino, Milano non sarebbe Milano. Sì, magari venderebbe moda, ma è lì che si è sviluppata la sensibilità della città».
Re Lear cosa direbbe al nostro mondo, oggi?
«Il protagonista è il re, è ovvio, ma lui è la pazzia del mondo. Il vero protagonista è Edgar, che rappresenta il percorso per raggiungere la grande saggezza, che è nell’ultima battuta del Re Lear, che dice Edgar: “Non pretenderemo di essere eterni”. La dice lunga… Saper trovare il momento in cui fare il famoso passo indietro. Ma l’uomo commette la hybris di credersi eterno. È difficile fare il passo indietro. Se qualcuno l’avesse letto prima di queste elezioni… Però ecco che ora in Italia c’è già qualcun altro che crede di essere eterno, e intravvediamo qualcuno a cui potremmo consigliare di leggere il Re Lear con attenzione».
E se da regista dovesse consigliare un testo che possa, come dicevano Strehler e Grassi, parlare alla società?
«Cechov. Ha raccontato non la storia di personaggi, ma la fine di mondi. Le tre sorelle sono la fine di un mondo, come Il giardino dei ciliegi e Il gabbiano. Guardando i tg, poi, ho visto la distruzione delle guerre: fra le macerie, poche donne e bambini che giocavano. Ho pensato che dovevo fare qualcosa di straordinariamente arcaico e contemporaneo. Ho scelto Le troiane di Euripide, intitolandole Le donne sconfitte. È un lamento di donne, ma avevo bisogno di qualcosa per arrivare in modo speciale al cuore della gente. Così ho chiesto agli allievi dei licei classici di Firenze e area metropolitana e ai loro insegnanti, di tradurre il testo. Siamo arrivati a una versione scandalosamente contemporanea. Contiamo di metterla in scena per la fine dell’anno. Sarà magnifico».

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