1 dicembre 2017 - 10:35

Cosa sono le fake news e perché ne parlano tutti: una guida essenziale

Le inchieste di Buzzfeed e New York Times hanno fatto (ri)esplodere il dibattito nel nostro Paese. Ecco cosa non si può non sapere

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Dopo Brexit e Donald Trump tocca (anche) a noi? La campagna elettorale delle prossime elezioni politiche si giocherà a colpi di fake news e propaganda 2.0? A seguire il dibattito, intensificatosi negli ultimi giorni, sembrerebbe di sì. Ma esiste davvero un’emergenza? E, soprattutto, da dove nasce e come si è sviluppato il fenomeno? E di cosa si tratta, di preciso e in parole povere?

Ecco una guida essenziale per non farsi trovare impreparati prossimi mesi:

Cosa sono le fake news?
Più se ne parla, più è difficile definirle. La traduzione letterale italiana è «notizie false» e non è, ovviamente, un fenomeno nuovo o legato alla Rete. Quello che è cambiato nell’ultimo anno abbondante è l’uso strategico e sistematico delle piattaforme digitali — Facebook, Google e Twitter in testa — per raggiungere gruppi specifici di utenti. Gli indiziati sono messaggi con toni e contenuti forti, ingannevoli o manifestatamente falsi, divisivi — e in quanto tali in grado di rinforzare l’opinione di chi dibatte il suo punto di vista in «camere dell’eco» a lui affini — e propagandistici a fini elettorali. Per il Collins Dictionary «fake news» è il termine dell’anno 2017 . Il Devoto-Oli l’ha inserito nella sua nuova versione. Le radici del trattamento (mediatico) del fenomeno, come detto, affondano nel 2016, l’anno della Post-Truth, secondo l’Oxford dictionary, in cui a generare consenso sembrano essere state le affermazioni false e non quelle veritiere. Non ci sono ancora dati che dimostrino l’effettivo ruolo della disinformazione nell’eventuale mutamento delle intenzioni di voto degli elettori. E, come detto, con il termine fake news si fa ormai riferimento a una vasta gamma di contenuti (manifestatamente falsi, come la foto di Boschi e Boldrini al funerale di Riina. Parziali e strumentalizzati, come la foto dell’islamica sul ponte dell’attentato a Londra. O la somma di questi e altri con toni molto forti e una diffusione tecnica strutturata).

Chi le diffonde e perché?
Sono svariati gli attori in campo. Due le motivazioni principali: politica, soprattutto da parte dei mandanti, ed economica, da parte degli esecutori. Come hanno dichiarato senza particolari problemi alcuni dei gestori di siti che fanno rimbalzare contenuti cosiddetti fake (qui l’intervista all’americano Paul Horner, qui quella a Matteo Ricci Mingani), creare reti di portali che lanciano e rilanciano materiali dai titoli sensazionalistici sui social netwok con l’aiuto di account più o meno reali è molto remunerativo. Nonché efficace, come spiega qui bene Davide Dattoli entrando nel merito della strategia Web dei 5 Stelle.

Perché se ne parla tanto adesso?
A livello globale, in realtà, se ne discute costantemente dal 9 novembre 2016, giorno dell’elezione di Trump, che ha poi adottato l’espressione per attaccare la stampa. In Europa la svolta, non più solo mediatica, è arrivata con la presentazione, la discussione e poi l’approvazione in aprile della legge tedesca anti-notizie false e anti-hate speech online. In Italia è stato un crescendo. Già a fine novembre 2016 Buzzfeed, che ha fra le sue firme l’italiano Alberto Nardelli, ha ricostruito la rete di siti non ufficiali ma riconducibili al Movimento 5 Stelle e contenenti notizie false e propaganda russa. Il primo tentativo di legiferare nel nostro Paese risale a febbraio, con la proposta — rimasta tale — di Adele Gambaro. Un mese prima il garante della concorrenza Giovanni Pitruzzella aveva auspicato l’istituzione di un ente pan-europeo. Sempre in febbraio, la presidente della Camera Laura Boldrini, una delle vittime preferite delle assurdità in Rete, ha lanciato l’appello #BastaBufale. Buzzfeed è tornato a mettere la lente di ingrandimento sulla disinformazione nostrana il 21 novembre con un’indagine, ancora di Nardelli e Craig Silverman e realizzata con la collaborazione del giovane informatico ed esperto di cybersecurity Andrea Stroppa, su una rete di portali che fa capo a un imprenditore romano. Pochi giorni dopo, il 24 novembre, il New York Times ci ha messo il carico: citando un’analisi di Stroppa, ha dato conto di un’asse fra Lega e pentastellati per diffondere contenuti falsi e propagandistici online. È stato il blogger ed ex Casaleggio Associati David Puente a trovare nome e cognome dell’anello di congiunzione fra i due partiti, che negano di aver in alcun modo foraggiato la sua attività.

Cosa c’entra Matteo Renzi?
Mentre la stampa americana si interessava alle nostre reti di falsità, l’ex premier si soffermava sul tema nel corso della Leopolda. «Vi abbiamo sgamato», ha dichiarato dal palco riferendosi all’inchiesta del Nyt e puntando il dito contro Lega e M5S. Beppe Grillo si difende accusando Renzi di aver orchestrato i due articoli attraverso Stroppa: l’esperto di sicurezza 23enne ha collaborato in passato con Marco Carrai, molto vicino all’ex premier. Entrambi negano. Stroppa di essere mosso da interessi politici e Carrai di aver a che fare con le inchieste. Intanto sta per essere depositato al Senato un nuovo disegno di legge, firmato da Luigi Zanda e Rosanna Filippin e basato su quello tedesco.

Cosa sta succedendo negli Stati Uniti?
Negli Usa il dibattito è esploso. E negli Usa hanno sede quelli che per molti mesi sono stati i primi e unici indiziati: i colossi della Rete. Definitiva prova della serietà e della delicatezza della situazione è arrivata con l’indagine dell’Fbi su possibili interferenze russe anche online nella campagna presidenziale. Davanti al Congresso sono finiti i general counsel di Facebook, Twitter e Google. Sul banco degli imputati i dati: 126 i milioni di americani raggiunti dai post di propaganda e 3 mila le inserzioni commissionate da account al soldo del Cremlino su Facebook. 2.752 account e più di 36 mila i bot filo-russi su Twitter. E 4.700 dollari le pubblicità acquistate su Google da Mosca.

Come stanno reagendo i colossi del Web?
Dal «folle pensare che Facebook abbia condizionato il voto» di Mark Zuckerberg del novembre del 2016, le posizioni si sono obbligatoriamente ammorbidite. In gioco c’è (anche) il loro rapporto di fiducia con gli utenti-lettori di notizie. I problemi sono tanti e di difficile soluzione. Tre i principali: chi decide cosa è falso e cosa no? Chi decide se quello che è manifestatamente falso va cancellato? Può una formula matematica, per quanto avanzata e basata sull’intelligenza artificiale, monitorare efficacemente tutto quello che viene pubblicato in tempo reale ed eventualmente intervenire? No, infatti il numero di controllori in carne e ossa sta aumentando in tutta la Silicon Valley. Facebook ha inoltre iniziato a collaborare con terze parti per il fact checking e l’etichettatura delle notizie potenzialmente false e si sta concentrando sulla differenziazione grafica delle fonti autorevoli da tutte le altre. In Italia ha annunciato l’imminente costruzione di una task force dedicata. Google ha a sua volta messo a punto un piano per permettere a chi produce fact checking di apparire in alto nelle sue ricerche, e di essere associato a contenuti falsi di modo che il lettore, incappando in un risultato di ricerca fake, veda subito sotto la smentita da parte di un ente terzo. Entrambi si sono concentrati soprattutto sul loro ruolo nel mercato della pubblicità online per tagliare l’erba economica sotto i piedi alle fake news.

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