12 dicembre 2017 - 22:02

Deforestazione nella pelle: l’impatto del Made in Italy sulle foreste tropicali

L’Italia è leader mondiale nel settore pelle, ma per raggiungere l’obiettivo ONU «deforestazione zero» entro il 2020 dovrà fare i conti con l’origine delle materie prime

di Franscesco De Augustinis

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L’allevamento di bovini è uno dei principali responsabili della deforestazione tropicale, a sua volta tra le più importanti cause del riscaldamento globale. L’Italia ha un ruolo da protagonista in questo ambito per quanto riguarda l’approvvigionamento della pelle, di cui è il massimo importatore al mondo, per fornire alcune delle più importanti industrie del Made in Italy: moda, arredamento, automotive.

Pelle e deforestazione - Nel 2016 l’Italia è stata il massimo importatore di pelle dal Brasile (107 mila tonnellate, per un importo di 289milioni di euro), rappresentando da sola la stragrande maggioranza della domanda europea da questo Paese (complessivamente di 127mila tonnellate). Comprare pellame in Brasile significa far fronte ad un alto rischio di avere a che fare con la deforestazione. Secondo il dipartimento Foreste e Studi Ambientali di Yale, oggi l’allevamento di bovini è «il principale motore della deforestazione in ogni Paese dell’Amazzonia, responsabile per circa l’80 per cento dell’attuale tasso di deforestazione tropicale. In Amazzonia Brasiliana si trovano circa 200 milioni di bovini, che ne fanno il più grande esportatore al mondo». Solo pochi mesi fa, a marzo 2017, l’agenzia per l’Ambiente Brasiliana (Ibama) ha sanzionato la multinazionale Jbs, principale produttore di manzo al mondo e primo interlocutore anche per chi compra pellame in Brasile, con una multa di 24 milioni di real - equivalenti a circa 6,3 milioni di euro - per aver utilizzato pascoli in aree deforestate illegalmente dell’Amazzonia, nello stato del Parà.
Nel frattempo i vertici della stessa Jbs ancora oggi sono al centro del principale scandalo di corruzione che abbia mai investito le istituzioni brasiliane. Sempre nel 2016 l’Italia ha importato 29mila tonnellate di pelli dal Paraguay, per un valore di 58 milioni di euro, rappresentando praticamente la totalità dell’import di pelle europea da questo paese. Gli allevamenti in Paraguay presentano un tasso di rischio persino maggiore del Brasile: oggi il Paese è il principale fronte mondiale per chi si occupa di deforestazione tropicale. Dal 2000 ad oggi la foresta del Chaco ha subito la più rapida deforestazione della storia, dovuta alla creazione di nuovi ranch e piantagioni. Alcune stime basate su osservazioni satellitari parlano di 700 mila ettari convertiti illegalmente da foresta in terreni agricoli tra il 2000 e il 2012, altre parlano di quasi 240mila ettari deforestati solo nel 2013 e di cifre simili per l’anno seguente.

Deforestazione zero o attenzione zero? - Essere i massimi acquirenti di pellame da Paesi «a rischio» come Brasile e Paraguay è ancora più grave se le aziende protagoniste di questo import non hanno politiche per tutelarsi dai prodotti derivanti da aree deforestate. «Tra i vari impegni a livello globale che riguardano il settore privato c’è l’obbiettivo (fissato dalle Nazioni Unite, ndr) di azzerare la deforestazione entro il 2020», afferma Tom Bregman, analista del Global Canopy Program e tra gli autori del programma Forest500. Si tratta di un programma internazionale che misura il ruolo di aziende e istituti finanziari nel foraggiare la deforestazione: «Stiamo iniziando a capire che si tratta di obbiettivi ambiziosi, ma se guardiamo a quello che fanno le aziende più esposte alla deforestazione secondo il rapporto Forest500, vediamo che spesso non sono neanche state adottate delle policy per raggiungere questo traguardo». Tra le aziende valutate nel rapporto Forest500, quelle italiane legate alla pelle non raggiungono la sufficienza alla voce «deforestazione».
Le ragioni dietro questi risultati le spiega l’Unione Nazionale Industria Conciaria (Unic) nel suo rapporto sulla sostenibilità 2017. L’associazione di categoria definisce «scarto recuperato» la materia prima, ovvero i pellami, scaricando di fatto il settore da ogni responsabilità sul controllo all’origine delle pelli e sui rischi di foraggiare con i soldi delle importazioni la deforestazione tropicale, legale o illegale.
I fronti di sostenibilità di cui si interessano le concerie italiane sono altri, come l’efficienza energetica, il consumo di acqua, la gestione dei reflui, i materiali chimici usati nel processo di conceria. Ma nessuna menzione alla deforestazione. Lo stesso approccio lo conferma Chiara Mastrotto, presidente del Gruppo Mastrotto - leader europeo per il settore conciario, che si occupa di produzioni in pelle per moda, design e automotive - secondo cui il problema dell’origine delle materie prime è di competenza «più della filiera della carne».

Le pelli lavorate nei distretti conciari italiani, che sono Santa Croce sull’Arno (Toscana) e Arzignano (Veneto), in realtà vengono a loro volta per lo più importate, prima di tutto dal Brasile. Anche in questo caso non c’è un controllo legato alla deforestazione: l’Icec, il principale certificatore per la sostenibilità nel settore conciario, offre strumenti facoltativi per conoscere l’origine delle materie prime, senza nessuna valutazione sull’impatto sulle foreste. Il Gruppo Mastrotto, molto attivo sulla sostenibilità, si concentra su altri temi, come le emissioni e l’impatto idrico. Il Gruppo fa parte del Leather Working Group (Lwg), un network di produttori che riconosce il problema della deforestazione legato al pellame, ma si limita a chiedere la tracciabilità fino ai macelli (e quindi non agli allevamenti), senza comunque porre ai propri associati regole vincolanti per evitare i fornitori a rischio: «Molti marchi globali stanno riconsiderando le proprie forniture di materie prime tenendo in considerazione la deforestazione», si legge sul sito del network. «Per questo Lwg ha incluso una sezione per verificare la capacità dei fornitori di tracciare le proprie materie prime fino ai macelli. Questo permetterà ai produttori appartenenti al programma Lwg di avere una piena conoscenza della provenienza delle materie prime». I punteggi assegnati da Lwg alle concerie (da «fail» a «gold») si basano però su altri criteri, diversi dalla deforestazione, ovvero: l’utilizzo di acqua, il consumo energetico, le emissioni. Tra i fondatori dell’LWG nel 2005 c’erano multinazionali come Adidas, Timberland e Nike. Proprio quest’ultima nel 2009 si è impegnata a non utilizzare mai più pellame proveniente da animali allevati in zone amazzoniche, facendo seguito ad un rapporto di Greenpeace dello stesso anno («Slaughtering Amazon») che denunciava e documentava il collegamento tra deforestazione amazzonica e le industrie della carne e della pelle. Quel rapporto chiamava in causa l’Italia proprio per il grande flusso di pellame importato da zone deforestate illegalmente. In Italia quella denuncia è stata raccolta da Gucci (che solo pochi giorni fa ha annunciato l’addio alle pellicce), che già allora si impegnò a non utilizzare pellame proveniente da zone deforestate.

(Servizio realizzato in collaborazione con il progetto Global Warming Made in Italy)

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